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Inchiostro sulla pelle – Terzo capitolo

Inchiostro sulla pelle – Terzo capitolo

Eccoci giunti al terzo appuntamento con il romanzo breve Inchiostro sulla pelle, a cura della misteriosa Piuma Bianca, in esclusiva estiva per i lettori de La Valdichiana! Prima di proseguire, avete già letto il primo capitolo e il secondo capitolo?

Mattina presto. (8)
Si era svegliata con il sorriso, era un po’ che non le succedeva.
Andava a letto sempre con la paura, l’inafferrabile preoccupazione che, una volta stesa, tutti i pensieri scomposti che durante la giornata la riempivano, improvvisamente, le avrebbero invaso gli occhi fino ad uscirle dalle orecchie. Avrebbe provato a soffocarli per non sentirsi abbandonare, avrebbe chiuso la bocca e si sarebbe sforzata di dormire, ma ovviamente non ci sarebbe riuscita.
Adesso stava bene.
Era un po’ che non lo vedeva, o meglio che non lo percepiva.
Era come assente, distratto, lontano, perso nel suo lavoro, nella sua routine.
Lei non aveva paura.
Aveva gli occhi ancora chiusi e sentiva solo il profumo del caffè appena fatto,
la finestra era socchiusa e da una fessura passava un leggero vento fresco che le intorpidiva il piede mentre un brivido le correva sulla schiena.
Sapeva che doveva alzarsi, ma stava bene cullata dalle coperte.
Girata su un fianco, sorrise.
Non si sa come mai ma a volte, quando meno te lo aspetti, ricordi piccoli, che nel momento in cui li hai vissuti sembravano insignificanti, ritornano alla mente come attimi indelebili che solcano quel preciso istante.
E allora ti sembra fondamentale ricordare.
Era passata nella sua mente la visione di loro due, la mattina dopo il loro incontro.
Il buongiorno soffocato dal cuscino, un sorriso con gli occhi, una carezza soffusa.
Sorrise.
Pensava, anzi, era certa che in quel preciso momento anche lui si fosse girato su un fianco e avesse sorriso.
Certe cose le senti.
Aveva percepito il suo sospiro nell’orecchio.
Come due specchi che si riflettono a distanza.
Si alzò.

Seduto… aspetto. (9)
Era una settimana che non la chiamava.
Aspettava.
Non era certo di cosa stesse succedendo, confuso aspettava.
Era difficile capire cosa fare, quando si viene travolti da un uragano si resta scioccati, indifesi.
Forse non riusciva a comprendere il peso del loro incontro.
Ripensava al volto senza trucco di lei, al profumo della pelle quando due corpi diventano uno, alla porta che sbatteva e la pioggia che incessantemente li avvolgeva.
Era distante, e lo sapeva.
Si sentiva come quando cerchi di raggiungere lo scoglio più alto dell’ isola, durante il cammino l’adrenalina ti fa compiere passi più lunghi delle gambe ma, quando sei solo con il vuoto sotto gli occhi, sale la paura, l’idea di non farcela, di farsi male, di sbattere.
Ecco, questo era quello che provava,
paura.
Paura di sbagliare, di buttarsi a capofitto e non trovare l’acqua al momento dello schianto.
Era un pensiero egoista ma non riusciva a liberarsene, intanto,
aspettava.

Un venerdì. (10)
Era forse la prima volta che si accorgeva dei secondi che inesorabili passavano.
Non aveva mai fatto troppo caso all’orologio, all’ora, e adesso sembrava che tutto ruotasse attorno ad essi.
Sentiva dentro di sè un piccolo malessere che le punzecchiava lo stomaco, le parole le si bloccavano tra i denti e per non far vedere il suo dolore, abbozzava un sorriso, falso.
Non si spiegava come mai al mondo esistessero persone che senza apparente motivo fossero inscindibilmente legate.
Legate da un qualcosa di forte che non ha un nome, è un’appartenenza, un sapersi riconoscere nell’altro senza sapere perchè.
È il saper vedere negli occhi dell’altro la risposta di una domanda mai svelata.
È il conoscere il più grande segreto di chi siede accanto a te senza averlo mai chiesto,
È il comprendersi nel profondo solamente guardandosi,
È la complicità di un sorriso, di cogliere un dettaglio inutile, di vedere il mondo in maniera differente ma senza mai ostacolarsi.
È forse più semplicemente vedere che il respiro batte allo stesso ritmo, identico, perfetto, e sapere fermamente che non potrà essere lo stesso per nessun altro al mondo.

L’ora non è importante… (11)
Non ci pensava quasi mai…
Il caffè bollente tra un biscotto e l’altro mentre si metteva le scarpe.
Aveva fretta.
Un salto in bagno per tirarsi su i capelli, per incidere il suo volto pulito sullo specchio, un sorriso frettoloso per augurarsi una buona giornata.
Aveva preso la borsa, le chiavi, gli occhiali, uno sguardo intorno.
Sbatteva il portone.
Giù di corsa per le scale.
A metà strada qualcuno l’aveva preceduta, si aprì il portone.
Si bloccò.
Rimase immobile, le scivolò la borsa dal braccio e rimase incredula a fissare il vuoto.
Lo sconosciuto si affrettò per le scale con il cuore in gola chiedendole se stesse bene, se avesse bisogno d’aiuto.
Niente.
Rimase ferma, non rispose.
Restò così per un altro secondo, poi lentamente allungò il braccio, sollevò la borsa, abbozzò un sorriso stralunato e riprese giù per le scale.
Aprì il portone e uscì.
Priva di forze come dopo una lunga corsa si sedette per terra, con le mani tra i capelli.
Non ci pensava quasi mai..
– Il portone! Il portone!
Si ripeteva senza pausa.
L’aveva ri-visto.
Aveva percepito il suo profumo forte, aveva visto il borsone blu che non passa dalla porta, gli occhi ancora intorpiditi coperti da occhiali troppo scuri, e quel sorriso…
un sorriso che lava via l’incertezza del primo saluto, che ti fa sentire a casa.
Si era ri-vista scendere le scale di fretta con una mano intrappolata dal vestito che le andava sotto i piedi e l’altra che teneva su un ciuffo di capelli.
Aveva ri-provato l’ebrezza di quell’incontro fugace, l’ansia dell’attesa e quel bacio.
Seduta per terra, non sapeva cosa fare.
Aveva fretta.
Ma non riusciva a muoversi.
Come dopo ore di bagno, esci e ti senti pesante, la testa dondola e cerchi il letto per sprofondarci.
Ecco, lei era sprofondata, ma sul ciglio della strada.
Tratteneva a tutti i costi una lacrima piccola che voleva sciogliersi sulla sua guancia.
Si era persa in sè stessa in quel ricordo così vicino e si odiava per questo.
Non ci pensava quasi mai…

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