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“I soliti ignoti”: la malinconia per un’Italia che non c’è più nel nuovo spettacolo di Vinicio Marchioni

“I soliti ignoti”: la malinconia per un’Italia che non c’è più nel nuovo spettacolo di Vinicio Marchioni

I soliti ignoti, celeberrimo film di Monicelli, arriva per la prima volta in teatro nella rilettura di Vinicio Marchioni. Mercoledì 19 Febbraio, alle 21.15 al Teatro Poliziano rivive sul palco l’Italia del dopoguerra in tutta la sua vitalità. Come sono arrivati dal grande schermo al palcoscenico i ladri maldestri di Monicelli? Abbiamo intervistato Vinicio Marchioni, attore e regista dello spettacolo, per scoprirlo.

Com’è stato confrontarsi con un classico del cinema in una versione teatrale? Come vi siete confrontati con la caratterizzazione dei personaggi di Monicelli?
“Con gli adattatori, Antonio Grosso e Pier Paolo Piciarelli, abbiamo prima di tutto riletto la sceneggiatura del film e abbiamo avuto l’impressione che già lì ci fosse una forte matrice teatrale. La grande sfida è stata riuscire a trovare una drammaturgia di scena per lo spettacolo teatrale. Volevo tenere il più lontano possibile l’idea del film e del cinema su un palcoscenico, naturalmente senza tradire gli aspetti fondamentali del film e della scrittura di Age, Scarpelli, Monicelli e Suso Cecchi d’Amico.
Abbiamo tenuto buona parte della sceneggiatura del film, poi abbiamo lavorato con la scenografia e i costumi per trovare la struttura dello spettacolo teatrale migliore possibile. Abbiamo trovato un buon equilibrio.
Per quanto riguarda i personaggi ho cercato in tutti i modi di non tradire l’immaginario collettivo. Il film è uno dei capolavori della cinematografia, non solo italiana, quindi non mi andava di allontanarmi troppo dalla memoria del pubblico.
Da una parte questo spettacolo è un omaggio a quel film, a quegli attori e alla grande lezione di Monicelli, dall’altra la messa in scena teatrale non poteva ovviamente avere nulla a che vedere con il cinema. Per portarlo in scena al meglio possibile, il punto è stato trovare un equilibrio.”

Passi alla grande commedia italiana dopo che il pubblico ha imparato a conoscerti nei ruoli drammatici e oscuri (pensiamo al Freddo di Romanzo Criminale, forse il ruolo che ti ha consacrato nell’immaginario collettivo). Come ti sei confrontato con questo passaggio?
“Dal Freddo di Romanzo Criminale sono passati dieci anni, in mezzo ho fatto Un tram che si chiama desiderio con Antonio Latella, ho fatto La gatta sul tetto che scotta: io sono un attore teatrale. Da quel ruolo lì – a parte i 26 film, le candidature e i premi per il cinema – ho sempre continuato a fare teatro, non ultimo Uno zio Vanjia, di cui ho curato anche la regia.
Ho sempre cercato di fare cose diverse sui palcoscenici a seconda dei periodi, a seconda di quello che mi sembrava più giusto condividere con un pubblico.
Dopo quattro anni di studio su Checov, per Uno zio Vanjia, l’idea di cimentarmi per la prima volta con una commedia a 360 gradi mi stimolava moltissimo, questo sì.
È uno studio straordinario sulla commedia: la matematica della commedia, dell’effetto comico è una cosa molto sottile, molto difficile; ed è meraviglio sentire tutte le sere il pubblico che ride. Devo dire che è una soddisfazione enorme.”


I soliti ignoti di Monicelli entrò nel cuore dell’italia del boom economico e del benessere. Quali aspetti emergono invece nell’Italia del 2020?
“Praticamente nessuno: con questo spettacolo mi faceva piacere riportare il pubblico proprio in quegli anni. Lo spettacolo è ambientato nel 1958, noi abbiamo cercato di modernizzare l’impianto scenico e di renderlo più contemporaneo, però ho cercato di portare in scena e di condividere col pubblico la stessa sensazione che avevo io rivedendo il film: una sensazione di malinconia verso qualcosa che non esiste più, un’Italia che non esiste più, dei personaggi che non esistono più, un tessuto sociale che non esiste più.
Cose che, però, da qualche parte ci appartengono, perché alcune componenti distintive dell’italiano medio secondo me non sono cambiate per niente: l’italiano ancora si riconosce in un certo tipo di cialtronaggine, per esempio, in un certo tipo di personaggi, in una certa arte del fregarci gli uni con gli altri.
L’idea era proprio di portare in scena quei personaggi, quell’Italia, quella fame, ancora, del dopoguerra prima del boom economico, con questi personaggi che però mantenevano una grazie e un’autoironia che noi abbiamo perso completamente.
La volontà era quella di fare vedere da che Italia siamo nati tutti quanti, che italiani eravamo. Ognuno poi si domanderà e si porterà via che Italia e che italiani siamo diventati.”

Tu sei molto legato al nostro territorio: solo due anni fa eri a Chiusi per le riprese di Quanto Basta: che ricordi hai della permanenza qui e di quel film?
“Meravigliosi: abbiamo girato per un po’ di settimane a Chiusi e sono state delle settimane straordinarie. A parte il grande valore paesaggistico e storico, ricordo sempre con grande affetto la partecipazione di tutta la cittadinanza, che si è buttata nelle riprese di questo film con un entusiasmo veramente meraviglioso.
Ci torno sempre con grande piacere, perché di quel film vado orgogliosissimo. Ha fatto il giro del mondo, in un sacco di festival, ed è una storia che può parlare ancora a tantissime persone, non penso che sia un film che sentirà il peso degli anni. Quindi non vedo l’ora di ritornarci ogni volta.”

Noi possiamo tornare a chi eravamo il 19 febbraio alle 21.15: appuntamento al Teatro Poliziano per scoprire un grande classico in una nuova veste.

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