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A bordo della Alan Kurdi con Caterina Ciufegni

A bordo della Alan Kurdi con Caterina Ciufegni

Caterina Ciufegni si è imbarcata a marzo come medico di bordo per la sua seconda missione nella nave Alan Kurdi. L’imbarcazione appartiene alla ONG tedesca Sea Eye, che si occupa di soccorso in mare.

Caterina è nata a Chiusi nel 1984 ed è cresciuta a Montepulciano. Si è poi trasferita a Bologna per studiare Medicina e da qualche anno vive a Berlino, dove ha iniziato il percorso da specializzanda. Abbiamo parlato su Skype per più di un’ora della sua esperienza da poco conclusa sulle acque del Mediterraneo. Nello schermo del PC avevo di fronte una ragazza infreddolita dal clima della Germania, avvolta da felpe e coperte di lana, sorridente e probabilmente ancora un po’ frastornata dopo settimane molto intense passate in mezzo al mare.

Attraverso i racconti e le parole di Caterina Ciufegni abbiamo cercato di darvi l’opportunità di “salire” a bordo di una nave soccorso, ripercorrendo le tappe della sua esperienza e rendendo fedelmente i particolari della missione che l’ha vista protagonista.

Come hai deciso di diventare medico volontario nel soccorso dei migranti?

“Quando ero piccola volevo lavorare per Emergency e quindi mi iscrissi a medicina. Mi piaceva l’idea di avere tra le mani uno strumento da usare in contesti particolari, difficili, in cui poter aiutare gli ultimi. Sono sempre stata consapevole di vivere in un mondo pieno di ingiustizie, in cui non c’è rispetto dei diritti umani e questa cosa mi ha segnata. A Berlino ho passato tre anni a lavorare 12 ore al giorno in ospedale. Alla fine mi sono presa una pausa per cercare di capire che medico volessi davvero essere, perché mi sono resa conto che non è la mia vocazione stare in un ospedale tedesco. Perciò, ho fatto richiesta ad alcune ONG. Sentivo di voler partecipare a una delle battaglie che ritengo giuste. Inoltre, penso che in quanto italiani abbiamo una responsabilità molto grande nei confronti di chi cerca di scappare dalle atrocità attraversando il mare: siamo la prima nazione libera e democratica che molti si trovano davanti dopo aver lasciato guerre, fame, povertà e dittature. Poi, verso la fine del 2019 mi ha contattato Sea Eye e così sono partita per la mia prima missione come medico di bordo. In quella di marzo-aprile 2020, invece, mi sono aggregata all’equipaggio all’ultimo minuto, perché il medico incaricato si era tirato indietro.”

Chi sono i membri dell’equipaggio di una nave come la Alan Kurdi?

“La crew è composta da un massimo di 20 persone. Una metà è formata da volontari non professionisti del mare e non pagati, tra i quali il Capo missione, il medico e i paramedici, l’addetto ai media. L’altra da professionisti: Capitano, due ufficiali, ingegneri e marinai. Il meeting point viene fissato tre giorni prima della partenza nel porto in cui è attraccata la nave. In questi giorni viene fatto un training teorico e pratico in cui, tra le altre cose, ci vengono spiegate le zone di mare, il rescue (ndr salvataggio), la gestione del cibo, dei medicinali, degli ospiti – chiamati così e non migranti – e i ruoli dell’equipaggio. La Alan Kurdi è una barca riadattata per il salvataggio, che porta il nome del bambino siriano trovato morto su una spiaggia in Turchia. Ogni volta che questa barca viene nominata si richiama la memoria di un piccolo innocente. È come se la nave avesse un’anima.”

Chi sono gli ospiti?

Sono persone che scappano dalla Libia, dal Bangladesh, dalla Siria, dal Sudan. Scappano dalla guerra, dalla povertà. Scappano da una vita orribile. Quando riesci ad abbattere l’ostacolo enorme della lingua e della fiducia reciproca la maggior parte dei ragazzi si apre. Mi hanno raccontato che prima che iniziasse la guerra in Libia marocchini, algerini e bangladesi si erano trasferiti lì per lavorare, perché prima era un paese ricco. Quando scoppia un conflitto, però, il lavoro sparisce e succede spesso che molti rimangano intrappolati in uno Stato in cui se ti ferma la polizia ti strappa il passaporto e senza non si è più nessuno, diventi un fantasma. Perdi i tuoi diritti e rischi di essere rinchiuso in centri di detenzione per migranti in cui torturano e chiedono riscatti alle famiglie. I segni delle violenze si vedono benissimo in molti uomini che salviamo: le loro braccia sono piene di cicatrici, segni di bruciature. Un ragazzo aveva due dita della mano deformate, perché gliele hanno rotte senza curarle. La Libia è una delle rotte più trafficate dai migranti, che rischiano tutto per mettere piede in Europa e provare a cambiare la loro vita e quella delle loro famiglie.”

Dove si è svolta la missione?

“Abbiamo navigato in un settore compreso tra l’Italia, Malta e la Libia. È precluso l’accesso per qualsiasi barca straniera alle acque nazionali senza il permesso dello Stato a cui appartengono, perciò stazionavamo al confine: nella parte chiamata zona SAR Search And Rescue. Si tratta di acque internazionali, ma se ci sono delle imbarcazioni in distress (ndr pericolo) la guardia costiera è obbligata a intervenire e riportare a terra i migranti.”

Chi prende le decisioni in mare aperto?

“Il mondo marittimo è molto piramidale, anche se a me le gerarchie non piacciono. Il Comandante ha la responsabilità legale su tutto quello che succede nella nave, perciò a lui spetta l’ultima parola. Nella mia prima missione il Capitano voleva essere informato su tutto e decidere in prima persona, mentre nella missione di marzo era meno rigido. Il Comandante si occupa più che altro della gestione della nave, mentre il Capo missione, che è quello che ha i contatti con la base a terra di Sea Eye, si occupa della squadra. Per la gestione della giornata e dei compiti facevamo riferimento a lui. Tendenzialmente, soprattutto con gli ospiti a bordo, il Capo missione diventa il riferimento principale. Io ero la responsabile della parte medica composta da paramedico, infermiere e psicologa. Ad ogni modo le decisioni venivano prese collegialmente nei briefing della mattina e della sera.”

Una volta raggiunte le acque nella zona SAR libica cosa succede?

“Si spenge il motore e si fa quello che viene chiamato drifting, ovvero si lascia che la corrente trasporti l’imbarcazione al confine con le acque nazionali: nel momento in cui la corrente ti porta troppo vicino a quella zona, si riaccende il motore e ci si riposiziona a distanza.”

A cosa serve?

“A rimanere in attesa aspettando un segnale di soccorso o per permetterci di avvistare un’imbarcazione di migranti. Infatti, sia i marittimi, che i volontari fanno dei turni di guardia. Le vedette osservano il mare con il binocolo. Apparentemente è una cosa semplice, ma in realtà è super difficile, perché siamo in mare aperto e sembra quasi che il binocolo non aiuti a vedere meglio nell’infinità del mare. Poi c’è Alarm Phone – un’altra ONG – che ha un telefono satellitare il cui numero in qualche modo viene diffuso attraverso contatti diretti fra le comunità di migranti e rifugiati. Questa connessione satellitare permette di individuare con esattezza la posizione di chi richiede il soccorso. Loro si occupano solo di informare la ONG più vicina alla zona di allarme, ma il loro ruolo è importantissimo.”

Come sono le imbarcazioni che i migranti usano per attraversare il Mediterraneo?

“Nelle mie due esperienze mi sono trovata davanti delle barche di legno. Sono di fattura super economica, si rompono facilmente. Nel caso di forature affondano in poche ore e il rischio di annegamento è alto, perché l’acqua del Mediterraneo è gelida e ci sono correnti fortissime. Senza giubbotto di salvataggio è difficile resistere e spesso i migranti partono senza che gli venga fornito alcun dispositivo di sicurezza.”

Le operazioni di salvataggio come si sono svolte?

“Alarm Phone ci ha contattati la mattina molto presto. Raggiunto l’obiettivo abbiamo iniziato le operazioni di salvataggio, dal momento che avevamo già uno dei due RIB (ndr. gommone fuoribordo di salvataggio) in acqua. In ogni RIB ci sono tre persone: il pilota, il RIB leader che prende decisioni e comunica col ponte e il comunicator che deve interagire con i migranti, far loro capire che devono stare calmi, che prima vengono distribuiti i giubbotti di salvataggio, che devono seguire le nostre istruzioni insomma. Se non sono in distress, tipo imbarco d’acqua, far mantenere la calma è abbastanza semplice, ma in una situazione in cui loro hanno paura devi trovare il modo per tranquillizzarli, fare capire loro che sappiamo cosa stiamo facendo e poi iniziare il trasbordo nel RIB e da qui alla Alan Kurdi dove il team di ponte si occupa dell’accoglienza e delle prime valutazioni mediche. Tuttavia, conclusa la fase di avvicinamento tra il nostro fuoribordo e il gommone dei migranti ci hanno raggiunti i libici intimandoci di fermarci e andare via, perché volevano portare indietro l’imbarcazione. A quel punto abbiamo chiesto di distribuire i giubbotti di salvataggio, ma i miliziani non volevano.”

“Sentivo di voler partecipare a una delle battaglie che ritengo giuste”

“I ragazzi hanno iniziato a tuffarsi in mare spaventati e per fortuna il mare era piatto. Dalla nave abbiamo iniziato a tirare in mare giubbotti e salvagenti. Trenta o quaranta persone delle sessanta che erano a bordo di quel “pezzo di legno” hanno preferito tuffarsi in mare piuttosto che rischiare di farsi catturare dai libici. Gesto che ha fatto arrendere i soldati di fronte all’evidenza che era impossibile riportarli indietro. Siamo riusciti a finire il rescue e poi se ne sono ripartiti con dietro la barca, che molto probabilmente verrà riutilizzata da qualcun altro. L’operazione è durata una mezz’ora e fortunatamente siamo riusciti a salvarli tutti. Poco dopo ci è arrivata la comunicazione di una barca in distress non lontano da noi. Abbiamo ritirato i RIB a bordo e siamo ripartiti. Abbiamo raggiunto il secondo target nel pomeriggio inoltrato. Il rescue in questo caso è andato liscio, perché non è arrivata la milizia libica. Dopo la seconda operazione di salvataggio avevamo 150 ospiti a bordo.”

Mi dai un’idea di quanto è grande la Alan Kurdi?

“È piccola, molto piccola: dovrebbe essere lunga 38 metri. I traghetti che più o meno tutti gli italiani conoscono e che raggiungono le nostre isole sono lunghi più o meno 200 metri. Infatti, il lavoro più difficile, una volta finiti i rescue e imbarcati gli ospiti, è stato quello di gestione della “folla”. Accudire 150 persone disperate, che devono mangiare tre volte al giorno e che non hanno spazio per muoversi e per dormire è una vera impresa.”

Può sembrare scontato, ma cosa fa un medico in una nave di soccorso?

“Il compito del medico varia molto a seconda dalla situazione. Devo preoccuparmi che tutti stiano bene, o meno male possibile, riconoscere i più deboli, riservare trattamenti più intensivi a donne incinta e bambini. A bordo c’è un piccolo ambulatorio con una strumentazione minima e un campionario di farmaci anch’esso molto ridotto. A tutti gli ospiti viene sempre fatto un check-up generale. Il medico deve anche gestire problemi quotidiani come mal di testa e scabbia, molto diffusa in ambienti sovraffollati e poi c’è la parte emotiva, psicologica. Quella è tosta. Considera che anche solo il non poter fumare causa problemi. A bordo non è permesso e ci sono uomini abituati a fumare anche 40 sigarette al giorno. Riesci a immaginare i nervi? Mi ricordo, poi, che nella mia prima missione – quella di dicembre – il mare era bello incazzato e di 30 ospiti 20 vomitavano come se non ci fosse un domani. Fortunatamente in quella di marzo il mare era piatto, per cui non avevamo casi di mal di mare. Immagina più di cento persone ammassate con il mal di mare. Non sarebbe stato per niente facile gestire una situazione del genere. “

Non c’erano “problemi di stomaco”, ma eravamo in piana emergenza Coronavirus…

“Esatto. Dovevamo fare in modo che, nel caso ipotetico in cui qualcuno degli ospiti fosse portatore del virus, non si diffondesse nella nave. In mezzo al mare non avevamo i tamponi e comunque sarebbero stati inutili nella nostra situazione, dal momento che serve un laboratorio di analisi che faccia i test sui campioni. Perciò l’unico modo che avevamo per monitorare la situazione era misurare la febbre e la saturazione dell’ossigeno.”

La parte psicologica chi la cura?

“Diciamo tutti. Nella missione di marzo abbiamo avuto la fortuna di avere una ragazza psicologa a bordo. Ci ha dato un enorme aiuto ed era anche incaricata di comunicare quotidianamente con gli ospiti. In pratica due volte al giorno riferiva delle poche novità e delle attività quotidiane come “chi oggi pulisce il bagno”, oppure “oggi facciamo la doccia”, ecc. Era quella che nelle situazioni di più intenso stress sapeva come meglio intervenire. Abbiamo avuto dei momenti molto pesanti e tutto il team medico ha dato prova di grande professionalità. Ci sono state anche due evacuazioni (ndr MedEvac), ovvero il trasporto di pazienti dalla Alan Kurdi a terra. La seconda volta l’abbiamo richiesta alle autorità italiane perché un ragazzo ha minacciato di uccidersi. Il problema è che poi, quando evacui qualcuno, questo ha delle ripercussioni incredibili sugli altri ospiti. Iniziano a pensare che potrebbe essere un modo per lasciare la nave. Alcuni hanno cercato di buttarsi in mare per raggiungere l’imbarcazione della guardia costiera. Tra l’altro era notte, quindi i rischi erano altissimi. L’evacuazione medica è una decisione difficile da prendere: ha delle conseguenze enormi.”

Il rientro verso la terraferma com’è andato?

“Per prassi abbiamo fatto la richiesta di porto sicuro a Malta, che però ce l’ha negata. Abbiamo proseguito fino alla SAR italiana dalla quale abbiamo fatto la stessa richiesta. Ci siamo fermati in attesa della risposta per giorni e lì diventa tosta, perché gli ospiti iniziano a chiedere “cosa stiamo aspettando? Perché non ci vogliono? Cosa succede?”. Potevamo solo dirgli che l’Italia stava cercando di gestire una pandemia, che stavano discutendo una soluzione con l’Europa e che di conseguenza non sarebbe stato semplice risolvere in poco tempo. Considera che a bordo sei isolato. Avevamo il telefono satellitare, certo, e il ragazzo dei media poteva usare una costosissima connessione internet per parlare con la stampa, ma non poteva essere usato dall’equipaggio e le notizie dalla terraferma non arrivavano puntuali.”

Come comunicavi con i tuoi familiari?

“Come ho già detto la connessione internet è costosissima e viene usata solo dal ragazzo dei media. Per cui avevamo la possibilità di mandare una mail ogni due giorni. La inviavo a mia sorella e lei faceva da tramite con amici e parenti. In realtà non sono stati tanti i giorni in cui siamo rimasti senza internet, perché vicino alle coste italiane arrivava a intermittenza un po’ di segnale. Nel viaggio di andata approfittavamo dei passaggi vicino alla terraferma per qualche minuto di connessione, per cui il giorno prima scrivevamo nella lavagna di bordo “domani alle ore 9.00 passeremo vicino a Pantelleria” e alle 9.00 in punto tutti stavamo sul ponte a cercare internet. Sono scene a loro modo divertenti, che servono al morale e per fortuna di momenti felici ce ne sono stati.”

Questi momenti di leggerezza è difficile immaginarseli in una operazione di salvataggio. Per di più i media non ne parlano spesso. A voi sono capitati?

“Abbiamo cantato… Un giorno dovevano arrivare le provviste, per cui avevamo liberato il ponte e gli ospiti erano stati provvisoriamente sistemati in un’altra zona della nave e all’improvviso tutti si sono messi a cantare Bella Ciao. Si sono instaurati rapporti personali profondi. Un ragazzo marocchino è diventato il nostro traduttore e tramite ufficiale, perché conosceva l’inglese e il francese. Ci ha aiutati molto e si è sovraccaricato di tante responsabilità solo perché conosceva le lingue. Capita che dopo un po’ di giorni il rapporto professionale medico, paziente, traduttore, ecc. viene superato e ci si apre, ci si racconta, si ride. “

“La Alan Kurdi è come se avesse un’anima”

“Sono piccole cose che aiutano questi ragazzi a evadere per qualche momento dall’incubo che stanno vivendo. È un peccato che non vengano mai raccontati dai media: possono aiutare a capire quanto sia importante l’empatia e la fratellanza anche fra persone diverse. Poi c’è stato il momento dello sbarco. È stato molto emozionante. All’inizio gli ospiti avevano paura di essere riportati in Libia e ci dicevano “non importa se qua si sta stretti, se bisogna dormire fuori al freddo, se il cuscus che ci fate non ci piace! Noi vogliamo stare qui, perché di voi ci fidiamo, ma non ci fidiamo di quelli che ci vengono a prendere, perché piuttosto che tornare in Libia ci ammazziamo”. Alla fine, dopo averli tranquillizzati, c’è stato il trasbordo nel traghetto della Tirrenia ancorato al porto di Palermo, nel quale hanno passato altre due settimane di quarantena. Era un continuo piangere e sorridere, cantare e fare foto.”

La Alan Kurdi in fermo amministrativo

Adesso la nave della Sea Eye è in fermo amministrativo. L’autorità portuale ha trovato 31 mancanze e ha dichiarato che la barca non è sicura né per la crew, né per 150 ospiti. «Perciò ci siamo chiesti» conclude Caterina Ciufegni «come mai ci hanno lasciati 12 giorni attraccati vicino al porto senza farci trasbordare i ragazzi? È stato chiaramente un atto politico per fermare o scoraggiare le imbarcazioni che vogliono partire nelle prossime settimane».

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