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Atlantidump, il continente di plastica – Primo capitolo

Atlantidump, il continente di plastica – Primo capitolo

Vi presentiamo in esclusiva il racconto a puntate “Atlantidump”, la cronaca umoristica delle avventure di Leopoldo Galvani nel continente di plastica. Come un moderno Gulliver, Leopoldo visiterà un paese sconosciuto e i suoi strambi abitanti, che hanno dato vita a una società basata interamente sulla plastica. Tra comicità surreale e satira sociale, il racconto di Alessio Banini ci accompagnerà per tutto l’autunno!

Ecco a voi il primo capitolo di Atlantidump e una breve premessa: Great Pacific Garbace Patch! Buona lettura!

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Atlantidump, il continente di plastica – Primo capitolo

Quando mi misi in viaggio, quella mattina, non sapevo ancora che avrei vissuto un’esperienza memorabile, degna delle avventure dei marinai del seicento. Un’esperienza capace di cambiare il nostro modo di vedere il mondo e di mettere in dubbio le nostre certezze. Un’esperienza talmente incredibile che non può essere dimenticata, o relegata alle curiosità delle riviste scandalistiche; per questo motivo, ho ritenuto necessaria la stesura di un resoconto di viaggio, in modo da informare correttamente i miei concittadini e di fornire agli accademici e ai governanti degli utili strumenti per impostare una rotta migliore al nostro futuro.

Ma andiamo con ordine: mi chiamo Leopoldo Galvani, e sono un italoamericano. Italiano da parte di madre, statunitense da parte di padre. Non sono un navigatore, anche se questa è la storia di un viaggio per mare. Mi limito a lavorare nell’azienda di famiglia, un istituto finanziario di Los Angeles che si occupa di derivati nel settore petrolifero.
Per le vacanze pasquali mi recai a San Francisco, assieme a un gruppo di amici che preferisco non citare per motivi di privacy. Dopo la Pasqua, decidemmo di utilizzare il mio yacht di famiglia per fare una visita alle Hawaii, rimandando il rientro a casa. Salpammo il 9 aprile 2010: avevamo provviste a sufficienza e le giuste conoscenze nautiche per affrontare la traversata oceanica.
Il giorno successivo cominciammo a seguire una rotta diversa da quelle consigliate, poiché volevamo goderci la solitudine del pacifico; ci trovammo così a nord delle Hawaii, al largo da altre imbarcazioni o ricognitori aerei.
Quella notte, tuttavia, colpimmo uno scoglio con lo scafo. Per amor di verità, non si trattava di uno scoglio. Era molle, piuttosto che solido, e si distrusse nell’impatto. Tenendo conto degli avvenimenti successivi, sono portato a credere che fosse un ammasso compatto di rifiuti.
Comunque sia, quella notte non ci fu modo di comprendere appieno la natura dell’ostacolo. Lo scafo si sfondò e cominciò a imbarcare acqua. I miei amici si rifugiarono sulla scialuppa di salvataggio e si allontanarono. Io mi attardai a prendere le mie cose: il portafoglio, il cellulare, lo zaino, l’orologio e la mia cara mazza da golf.
Quando tornai sulla tolda, la barca si inclinò su di un fianco e cominciò ad affondare. Venni scaraventato in acqua. Mi tenni aggrappato alle mie cose, cercando di nuotare verso la scialuppa. Non la vidi da nessuna parte. Urlai.
Era notte, era buio. C’era solo l’oceano attorno alla mia barca che si inabissava. L’oceano, e alcune bottiglie di plastica che galleggiavano attorno a me.

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Non ricordo molto della notte passata in acqua, a dir la verità. Ricordo di essermi aggrappato a qualcosa, in balia della corrente, solo e sperduto. Ho rischiato di morire affogato.
Ma la mattina successiva mi sono svegliato sulla terraferma. Lo sentii subito, appena aprii gli occhi. Non stavo galleggiando, non stavo affondando. E non stavo morendo! Il sole mi splendeva sulla faccia, la terra sotto di me era solida e compatta. Ero vivo!

Solo chi ha rischiato di morire in mare può comprendere appieno la felicità del mio risveglio. Solo chi ha passato una notte nel bel mezzo dell’oceano, di fronte all’immensità di quella massa d’acqua. Ero vivo, ed ero felice. Mi tirai su e mi misi a baciare il terreno, tra le lacrime.
Ma subito mi ritrassi, sconvolto. Non c’era la sabbia di una spiaggia, sotto di me, bensì una massa confusa di bottiglie di plastica, rifiuti e sacchetti della spazzatura. Mi ripulii le labbra e sputai a lungo, schifato. Non riuscivo a credere ai miei occhi. La spiaggia era sommersa di rifiuti! C’erano buste, suole di scarpe, siringhe, spazzolini da denti e quant’altro. La spiaggia sembrava formata interamente dall’ammasso di quei rifiuti.

Da una parte stava l’oceano, placido e immobile. Io ero seduto su un’isola galleggiante formata da plastica e immondizia, che si estendeva a perdita d’occhio. Una distesa compatta di rifiuti, fino all’orizzonte. Altro che spiagge caraibiche e paradisi naturali! Credevo di essermi salvato, e invece mi ero risvegliato in un luogo da incubo.
Scavai con le mani, cercando di capire. Gettai via le bottiglie vuote, i resti degli elettrodomestici, i sacchi pieni di cartacce e i pannolini. Dopo un paio di metri di scavo, trovai l’acqua dell’oceano. Non c’erano più dubbi: non era un’isola coperta di rifiuti, bensì una discarica galleggiante. Un’isola di plastica!

Ora capirete perchè proprio io, così estraneo alla letteratura, abbia deciso di narrare questa storia. Mi sono trovato di fronte a un’esperienza unica, che i miei concittadini dovevano conoscere. Quest’isola non può rimanere nascosta nel Pacifico: il mondo deve sapere.
Quando i miei amici mi hanno chiesto se non fossi stato vittima di un’allucinazione, dopo il mio ritorno a casa, ho mostrato loro le prove. E le mostrerò anche a voi, assieme al mio resoconto di viaggio.

Ma andiamo con ordine. Mi misi a battere i pugni a terra, maledicendo la mia sfortuna e tutte le divinità del creato. Mi ferii con un ferro sporgente, e imprecai ancora di più. Urlai verso il mare alla ricerca di aiuto. Non apparve nessuno. La sera prima stavo navigando al largo delle consuete rotte commerciali, pertanto supposi che quell’isola dovette trovarsi in un punto sperduto del Pacifico. Rischiavo di morire lì, circondato dalla plastica.

Dopo pochi minuti, però, uno figura spuntò in fondo alla spiaggia. Dapprima la scambiai per un pesce o per qualche strano animale. Poi ne riconobbi le forme umanoidi, e mi tranquillizzai. Le corsi incontro, felice di trovarmi di fronte a un mio simile che avrebbe potuto spiegarmi il senso di quell’isola e aiutarmi a tornare a casa.
Quando fui abbastanza vicino, però, la mia felicità si tramutò in stupore. La figura non era quella di una ragazza umana, bensì quella di una sirena.

Una sirena in carne e ossa, amici miei. Anche se non ci crederete, alla fine del resoconto vi fornirò tutte le informazioni necessarie e le coordinate navali per verificare la mia storia con i vostri stessi occhi.
Quella che mi giunse davanti era una sirena, dal corpo snello e longilineo, con la pelle rosa e il seno prosperoso. Dalla cintola in su, era un splendida ragazza, con tutte le forme al posto giusto e dei lunghi capelli rossi legati in una coda. Indossava una collana di palline colorate di plastica e un reggiseno di stracci rattoppati. La parte sotto la cintura, invece, era quella di un pesce, viscida e squamosa, che terminava con una pinna. La sirena era alta quasi un metro e mezzo; a volte strisciava con la parte inferiore del corpo, in maniera simile ai serpenti; altre volte si dava la spinta con la pinna e saltellava sui cumuli di rifiuti, con grande agilità. In mano teneva un forchettone lungo più di un metro, con cui spostava i rifiuti dal percorso e apriva i sacchi di immondizia.

Quando mi si parò davanti, la sirena parve sorpresa quanto me. Io le fissai il seno, pensando a cosa dire. Lei mi anticipò:
“E tu che marca di pesce saresti?”
Io mi grattai la testa, perplesso. Perlomeno, la sirena aveva parlato in inglese. Nonostante la stranezza di quella situazione, avevo modo di comunicare con quella forma di vita così diversa da me.
“Sono naufragato qui, stanotte. Vengo dalla California.”
La sirena emise un grugnito soffocato, che non riuscii a interpretare. Quindi mi punzecchiò con il suo forchettone. Io feci una smorfia, ma sopportai l’esame con dignità.
“Sembri proprio uno sprecone. Sì, sì, uno sprecone.”
“In realtà, mi chiamo Leopoldo.”
“Io sono Trashy. Vieni con me.”
“Piacere di fare la tua conoscenza, Trashy.”
Lei non rispose. Mi fece cenno di seguirla verso l’interno dell’isola. Io rimasi immobile per un po’, interdetto, mentre la sirena saltellava sulla pinna. Poi mi decisi a seguirla.

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