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Specchio-intervista a Pierluca Mariti

Specchio-intervista a Pierluca Mariti

Per la prima intervista di “Specchio”, abbiamo fatto due chiacchiere con Pierluca Mariti (@piuttosto_che), viso non nuovo a noi de La Valdichiana.

Seguendo Pierluca da tempo e avendo avuto già modo di parlarci a una cena, mi sono sentita libera di fargli domande che prevedessero delle riflessioni personali e che ci permettessero di parlare e riflettere più che di fare un’intervista.

Di questo mi sono già scusata con lui, il quale, poche ore prima di una tappa del suo tour di presentazione del suo primo romanzo “Niente di che”, si è ritrovato a parlare con me per quasi un’ora e mezza rischiando anche una crisi respiratoria a causa di un raffreddore.

In realtà, questo carattere “informale” è stato consapevolmente scelto da me per seguire i passi di quello che era “Specchio” all’inizio: un luogo in cui raccontare storie che potessero informare chi ci seguiva e ascoltava, offrendo spunti e possibilità per costruire dialoghi. 

Ringrazio quindi nuovamente Pierluca, che ho incontrato un anno e mezzo fa per la prima volta mentre ero felice e senza aspettative. È stato lui il primo a predire un cambiamento per questo magazine, annunciando, alla fine della cena “ValdiChiara potrebbe essere un bel nome”.

Sei reduce dal tuo primo romanzo “Niente di che”, ma per iniziare, anziché parlare di come è nato e di ciò di cui hai scritto, vorrei parlare di quello che c’è all’esterno del libro, nella copertina, perché alla fine l’abito il monaco lo fa.
Nella tua biografia la prima parola che si trova è “comico”, poi si passa a “giurista pentito” e infine a “ex manager in una multinazionale”. 
Come è successo che la comicità e l’intrattenimento diventassero una descrizione presente di ciò che sei?

“Diciamo che “comico”, o perlomeno tendente all’ironia, lo sono sempre stato. La facevo quando facevo teatro al liceo e l’ho sempre conservata e tenuta come mia indole anche se in disparte. Ho infatti dovuto soffocare questa mia parte comica prima per fare giurisprudenza e poi per lavorare in azienda, finendo sempre per sentirmi dire dalle persone “oh ma lo sai che dovresti fare il comico?”. E io, consapevole del fatto che anche nella mia testa frullava quella cosa, rispondevo con “eh sì mi piacerebbe”, ma poi finiva lì. Mi ero ormai incastrato in un percorso che pensavo fosse quello giusto, se non altro per la mia realizzazione professionale e personale, che alla fine c’è stata, ma alla quale mancava una grande parte: quella della felicità, del rispecchiarsi in ciò che si fa.

A un certo punto c’è però stato il caso veramente fortunato di Instagram che mi ha permesso di riscoprire quella mia parte comica e di farla arrivare a sempre più persone durante un periodo nel quale io avevo già deciso di buttarmi nella stand-up comedy, ma solo come hobby dopo lavoro. 

Ma, sommando eventi fortunati e volontà di cogliere quelle occasioni, il dopo lavoro è riuscito a diventare un lavoro a tempo pieno, ed ora lo è da circa un anno e mezzo.”

L’avresti mai immaginato questo momento? Quando ti dicevi “mi piacerebbe” in qualche modo te lo sentivi che sarebbe arrivato?

“Sarei un bugiardo se ti dicessi “per me è stata una sorpresa”. In me c’è sempre stata una parte, a volte piccola a volte più grande, che un po’ sognava e un po’ sentiva che se io mi fossi messo alla prova su un palco la risposta da parte del pubblico sarebbe stata positiva. 

Uno spesso si rende conto di tante cose che non è in grado di fare, tendiamo sempre a dire “ah questo io non saprei come farlo”, ma a volte c’è anche bisogno di dire “io questo secondo me lo saprei fare”.

Bisogna dire che ho fatto la mia parte, perché sono stato un po’ fifone spesso e non ho mai dato spazio all’intrattenimento per paura di come potesse andare. È per questo che sono passati tanti anni prima che decidessi di farlo, in un momento in cui già sentivo un sostegno grazie ai social.”

Torniamo al libro, i protagonisti del tuo libro sono 5, tutti alle prese con la vita da trentenni; c’è chi progetta, chi è in crisi, chi è costretto a rivoluzionare la sua vita, ma tutti in qualche modo subiscono un processo di cambiamento all’interno del libro. Tutti partono da un punto A e arrivano a un punto B, magari non arrivano lontano ma si percepisce comunque che qualcosa è cambiato. 
Quale è stato il tuo punto A e quale il tuo punto B quando hai compiuto trent’anni?

“Come ti dicevo, arrivato a trent’anni avevo realizzato una serie di obiettivi: avevo trovato un lavoro che mi piaceva e che mi dava da vivere in maniera serena, avevo costruito le fondamenta per l’età adulta così come mi era stato prescritto. Arrivato a quell’età mi sono però chiesto “Ma è tutto qui? È veramente questo il punto di arrivo per cui ho tanto faticato e lavorato?”. Vista questa insoddisfazione mi sono risposto “Forse no, non mi sembra niente di che”. Anche per me, come per i protagonisti dei miei libri c’era qualche aspettativa mancata, questo “niente di che” che aleggiava nell’aria. 

E se questa sorta di delusione è stata il punto A da cui ripartire, il mio punto B è stato iniziare a mettere in discussione quell’idea di realizzazione e felicità e rielaborare il mio orizzonte, cercare di comprendere cosa effettivamente mi rendesse felice.”

Usciamo dall’ambito lavorativo, e soffermiamoci su un’argomentazione portata alla luce da uno dei protagonisti, con la quale mi sono sentita coinvolta in prima persona. Mattia fa presente quanto in lui dimori una necessità fisica ed emotiva di soddisfare e porre rimedio attraverso i suoi successi ai sacrifici dei tuoi genitori. È un peso che si portano a mio parere tutte le generazioni, per te è qualcosa che ha influito nelle decisioni che hai preso nel tempo?

“Questa convinzione di Mattia è ovviamente un qualcosa che io ho affidato a lui per la storia e il tipo di percorso che fa, il quale è probabilmente quello che prevede un maggiore sacrificio di sé. Come se tutto fosse costruito prima su un dovere e poi su una necessità di affermare che ce la stai facendo e che di conseguenza tutti sacrifici che sono stati fatti da altri su di te sono stati ripagati. 

Ho voluto riportarla nel libro perché è una sensazione che effettivamente io ho visto su tantissime persone, sia della mia generazione che di altre. Credo sia una caratteristica che, dal dopo guerra, viene tramandata di generazione in generazione e che al suo interno ha sì della razionalità, ma soprattutto dell’irrazionalità. 

Anche per me sapere che tutte le possibilità che avevo erano state date dai miei genitori ha influito in maniera importante nelle mie scelte. Ha influito nel momento in cui mi hanno detto “No non fai l’accademia di teatro ma Giurisprudenza, così da avere un percorso che può garantirti una serie di risultati” e io mi sono iscritto a Giurisprudenza. 

Ha influito così tanto che quando ho abbandonato la carriera teatrale e ho preso giurisprudenza, nonostante non l’avessi fatto in base alla mia volontà, lo trovavo sensato. Ad oggi, quando ci rifletto, non cerco di capire e trovare i momenti in cui ho preso delle decisioni per criticarle e capire se è stata colpa dei miei genitori o mia, ma cerco di comprendere il fatto che a un certo punto avevo interiorizzato così tanto un certo senso del dovere che ho iniziato a sacrificarmi senza che nessuno me lo chiedesse. 

È quindi, a mio parere, questo il problema. Non sono i primi sacrifici a limitarti e a limitare le tue scelte, ma quelli che fai dopo, inconsciamente, e che ti convincono che l’età adulta sia questo: un sacrificio tuo volto a ripagare un sacrificio di qualcun altro.”

Torniamo al teatro, come è nata questa tua passione?

“Sono entrato in contatto con il teatro da bambino e mi è piaciuto da subito, nonostante fossero solo dei piccoli incontri.

Il primo vero momento in cui ho iniziato a fare teatro coincide con l’inizio del liceo, dove c’era un gruppo teatrale storico. Mi ci sono iscritto con alcune delle persone che conoscevo ed erano in classe con me, anche se poi ho conosciuto proprio lì quelle che sono diventante le mie migliori amiche.

Quei cinque anni di teatro mi hanno innanzitutto aperto gli occhi, mi hanno fatto vedere che ero effettivamente bravo a fare qualcosa. Ho scoperto che poteva esserci qualcosa in cui ero bravo e spiccavo per la mia bravura, non tanto perché mi ci impegnassi ma proprio perché mi piaceva farle. 

Il teatro mi ha poi insegnato l’importanza delle relazioni e dei rapporti umani. C’è una connessione umana nel mondo del teatro, almeno quello che ho conosciuto io, che si crea a priori dallo spettacolo, e che per me è stata fondamentale durante gli anni più difficili dell’adolescenza. 

E poi, quando si entrava in scena, e si portava davanti a un pubblico il lavoro di un anno, e ti pervadeva la sensazione di connessione con gli spettatori, è per me sempre stata una sensazione piacevole, che scatenava in me qualcosa di forte.”

Finito il liceo hai dovuto abbandonare questo gruppo, ma hai provato a cercare altre realtà?

“Sì, ci ho provato il primo anno di università. A Roma Tre, dove ho studiato io, c’era un gruppo di teatro anche abbastanza affermato e strutturato, forse troppo, visto che non accettava studenti se non attraverso casting. Io feci il provino ma non fui preso. E in questo momento di gioia interrotta, in cui in realtà cercavo qualcosa da fare non come un lavoro ma per divertimento, e in cui ho anche rosicato, rimanendoci male, ho deciso di accantonare un po’ tutto.

In realtà ho anche sviluppato un pensiero abbastanza tossico, per cui a un certo punto mi sono detto “Meglio avere accantonato il sogno da attore, perché se dovessi continuare a coltivarlo a un certo punto sarei costretto ad accettare un compromesso e io non lo voglio”. 

Ora ripensandoci mi picchierei, perché in me si era insinuato il pensiero che o arrivavo a fare spettacoli nei più grandi teatri di Italia o niente, quando in realtà i compromessi fanno parte dei percorsi. E perché poi indovina un po’? Il 15 gennaio 2023 ero al Teatro Brancaccio a Roma con il mio spettacolo “Ho fatto il classico”. Non era poi così impossibile da realizzare quel desiderio.

Tralasciando gli scherzi in realtà mi comprendo, comprendo il perché di questo pensiero, era un mio modo di tutelarmi da un possibile fallimento. Però è sempre rimasto il fatto che quella strada, quella del teatro e dell’intrattenimento, era l’unica davvero luminosa.”

Parliamo del tuo spettacolo “Ho fatto il classico”, come è nato e cosa hai provato quando ti sei reso conto che il sogno a cui avevi rinunciato anni prima finalmente stava diventando tangibile?

“Lo spettacolo è nato un po’ per caso…

Avevo iniziato a scrivere piccoli pezzi di stand-up comedy prima della pandemia, e con le interruzioni a causa delle restrizioni mi sono ritrovato a dovere fermare tutto. A un certo punto mi è stato proposto di fare delle letture con We Reading, una realtà che organizza letture non convenzionali. Tendenzialmente cercano persone che non fanno gli scrittori né gli attori in maniera professionale ed effettivamente io in quel periodo non ero né l’uno né l’altro, facevo solo dei video su internet. 

Così ho scelto dei testi che mi piacevano e che si fanno normalmente a scuola, in modo da rendere le letture accessibili a tutti e così da far sì che per la preparazione fosse in qualche modo sufficiente la mia conoscenza data dalle reminiscenze del liceo. I testi erano collegati tra loro da un filone narrativo relativo al momento che stavamo vivendo, la riacquisizione della libertà e della serenità, e, mentre mettevo su questi collegamenti, pensavo ai raccordi tra le letture, che erano poi le parti più comiche della lettura.

Questa lettura, che doveva essere una cosa rilassata, si è così trasformata in uno spettacolo di più di un’ora e mezza, durante la quale le persone le ho sentite divertite e complici di quello che dicevo.

In quel momento ho realizzato che era già successo, avevo già fatto il mio primo spettacolo.

Da lì ho avuto la possibilità di riproporlo altre cinque o sei volte, durante le quali l’ho strutturato e sistemato e alla fine mi sono detto “Ce l’abbiamo, questo è lo spettacolo”. Così abbiamo organizzato e strutturato un tour all’interno dei teatri, dopo avere portato quello che era il prototipo di “Ho fatto il classico” anche in situazione surreali.

Ma non importava il luogo, vedere le persone che arrivavano e stavano ad ascoltarmi raccontare, parlare, fare spettacolo, è bastato per riempirmi di orgoglio, di senso di potenza.”

Ed è forse arrivare a provare questa sensazione che ti fa capire che sei sulla strada giusta…

“Concordo. Mi è capitato dando esami all’università di prendere 30, ma l’unica sensazione che provavo era di sollievo. Nonostante andassi bene quando finivo di dare gli esami mi dicevo “Menomale, anche questa volta ce l’ho fatta, passiamo al prossimo”. Pensa la differenza che c’è tra questa reazione e il sentirsi invece orgoglioso del traguardo che hai raggiunto.

Mi dispiace proprio vedere le persone, perché poi con il tempo grazie a Instagram in molti si sono aperti con me e questa è una cosa che mi ha sempre fatto immensamente piacere, che nonostante vedano l’università come una croce e come un lavoro continuano a farla non per loro volontà.

Siamo forse un po’ tutti troppo piegati al dovere e non al piacere.”

Il tuo spettacolo non è stata la prima volta sul palco, o perlomeno non la prima in cui hai portato un tuo contenuto. Anche nella biografia del libro riporti un tuo talk, per la precisione quello al TEDx di Ferrara con “È da femmina!”. 
Prima di rivederlo a ridosso di questa intervista, avrei voluto chiederti come mai avessi deciso di riportare scritto proprio quello, ma ad ora, consapevole di ciò che hai detto (lasciamo ai lettori il link qui del tuo talk), quello che vorrei chiederti è un po’ più intimo. 
Quanto è difficile formare un’identità personale senza sentire il dovere di rispondere a canoni o paletti imposti dalla società? E cosa potrebbe fare quest’ultima per aiutarci?

“È una domanda molto complessa, ma perché mi è molto difficile pensare a cosa definisce la mia identità, anche perché non ho mai sentito la necessità di definirla con un tratto netto. In molti casi definire la mia identità per me è semplicemente significato accettare e abbracciare chi sono e di cosa voglio riempire la mia vita. Penso che le identità siano abbastanza morbide e malleabili, hanno forse un nucleo rigido, che è ciò che mi definisce sin da bambino, ma il resto sono tutte cose che vanno e che vengono, che a volte rimangono e a volte no. 

Se per parlarne ci spostiamo verso il ted talk, dove parlavo di identità di genere, devo dire che ho sempre avuto una grande difficoltà con le caselle “uomo” e “donna”. 

Perché sì, sono un uomo e mi identifico con il genere maschile, eppure se vado a vedere la lista delle cose che dovrebbero teoricamente piacermi o non piacermi, che dovrei sapere fare e non sapere fare, gli attributi del maschile, non sento di potere dire di averli tutti e di non avere nessuno attribuito femminile. Ma da sempre, soprattutto da quando ero piccolo.

È proprio quando si è bambini che si costruisce tutto, quando siamo più influenzabili e influenzati da questa necessità di incasellare. All’inizio ci muoviamo liberamente, senza limiti, ma se continuano a riprenderti, a precisarti cosa puoi e non puoi, cosa devi volere, è un processo naturale sentire la necessità di iniziare a definire e a distinguere a tua volta.

Quando mi guardo alle spalle son contento e orgoglioso di notare come io abbia sempre conservato una certa autonomia decisionale in questo, non in maniera semplice devo dire, perché significa essere e diventare estraneo al gruppo.

Quindi, cosa può fare la società? Beh, può sicuramente fare una grande riflessione su questi stereotipi di genere, che non sono minimamente necessari.

Questa riflessione è sicuramente stata fatta in maniera approfondita dalle persone che appartengono al genere femminile, ma non posso dirti lo stesso per quanto riguarda il genere maschile. In generale noi tendiamo a tenerceli bene ancorati questi stereotipi, perché ci danno sicurezza e ci spaventa allontanarcene.

Se la società iniziasse ad allentare il racconto che viene fatto su queste regole di genere potremmo sicuramente creare molte più possibilità che limiti alle generazioni future.”

La tua community con te si apre molto, basta vedere il tuo format “Tell mama”, e sui social, nonostante tu sia fondamentalmente un intrattenitore, ti poni e poni attenzione anche su temi importanti e delicati per il momento storico, sociale e culturale che stiamo vivendo. Come ci si sente a fare questo sui social di oggi, che sono diventati un vero e proprio canale di informazione?

“Mi propongo come comico e intrattenitore ma poi mi rendo conto che ci sono alcuni temi che si possono esaurire con una battuta e altre cose che invece possono beneficiare di un po’ più di riflessione. Per questo cerco di portare un’altra parte di me anche se non è semplice, perché non sono un esperto della maggior parte delle cose che in questo momento affollano i nostri pensieri e i nostri schermi. 

Non sento una responsabilità come se fossi un informatore, credo che se c’è un’assenza di responsabilità da qualche parte e se effettivamente si è persa la centralità di alcuni mezzi di informazione, non è un’assenza che posso colmare io. Motivo per cui sento responsabilità non tanto nel fare informazione ma nel cercare di non farla su temi su cui io non ho abbastanza competenze per esprimermi in maniera consapevole. 

Internet è diventato uno spazio di grandi conflitti, le persone entrano sui social con uno spirito spesso polemico o che comunque ricerca una reazione in coloro che seguono verso le emozioni che provano. Se apro un social e sono arrabbiato devo vedere persone tristi e arrabbiate, se invece vedo persone allegre la mia rabbia aumenta.

Io non posso di certo essere lo specchio delle emozioni delle persone, sarebbe ingiusto, ed è per questo che cerco di portare sempre una comunicazione che disinneschi il conflitto. Se vogliamo informarci dobbiamo porci aperti nei confronti dell’informazione e nei confronti di coloro in cui ci imbattiamo mentre la cerchiamo.

Prima di parlare di qualcosa, prima di maneggiare un argomento, cerco sempre di capire perché lo faccio. Nel momento in cui parli di questa cosa, lo stai facendo per offrire un servizio a quest’ultima o lo stai facendo per offrire un servizio a te stesso?

È una domanda che mi ha spesso evitato di parlare di alcuni argomenti e di evitare di finire in alcune polemiche.

Questo mondo dei social è strano, e quando inizi a lavorarci nessuno ti insegna come farlo.”

Una polemica nata da molti utenti nell’ultimo periodo riguarda il fatto che molti content creators non si esprimano e non si espongano in maniera totale su alcuni argomenti. Ma è veramente così necessario farlo anche quando non si padroneggia in alcun modo l’argomento?

“Questi ultimi tempi mi hanno dato molto da pensare in relazione a questa cosa. È talmente surreale provare questa vicinanza per un conflitto che è a migliaia di chilometri da noi che spesso ci lascia senza fiato. Come la commenti questa cosa se non hai le capacità per farlo? Dicendo che è bruttissimo, che la guerra non andrebbe fatta? Mi sembra assurdo dovere espormi per dire che sono per la pace, ma una volta detto questo a mio parere qualsiasi altro contributo io non sono in grado di darlo. Posso dirti di continuare a sviluppare un tuo pensiero critico, di continuare a vedere le immagini per comprendere che è vero, posso suggerirti dei profili da seguire, ma dubito che tu possa trovare una risoluzione del problema in me, in un comico.”

Proviamo a fare insieme una riflessione. 
Un po’ di giorni fa mi è morto un pesce che avevo con me da anni, ho provato un dolore commisurato o forse no alla cosa, e mentre cercavo di elaborare l’emozione come si fa nel 2023, cioè aprendo Instagram e le newsletter a cui sono iscritta, mi sono imbattuta in immagini strazianti, che ti mostravano morte e dolore. Mi sono imbattuta nel dolore del mondo: riscaldamento globale, guerra, privazione dei diritti e della libertà e così mi sono sentita stupida a provare dolore per una cosa così “piccola”. Ho sviluppato un senso di inadeguatezza nei confronti dei miei sentimenti e sono piombata in una tristezza ancora più profonda. 
Riflettendoci e parlandone ho notato che quando si va a spiegare questa cosa alle persone più grandi, che appartengono a generazioni precedenti alla nostra, non lo comprendono. Non comprendono questa tristezza data da situazioni esterne a noi e quel senso di impotenza nei confronti del futuro. Sensazioni, che a mio parere, sono invece molto comprensibili sia dalla famosa Generazione Z, ma anche da quella a cui appartieni tu, fino ad arrivare ai quarantenni di oggi.
Se provi questa sensazione anche te, come la vivi e come ci si difende?

Parte di questo sentire ho cercato di proporlo anche nel libro. L’urgenza di arrivare ai trent’anni con una serie di cose concluse secondo una serie di regole che ci sono state date deriva anche dal fatto che ci sono stati prospettati giorni molto bui da quando siamo nati. Io mi sono diplomato al liceo e due mesi dopo è scoppiata la crisi del 2008 e da quella crisi ci sono state tantissime altre crisi di varia natura. 

Noi facciamo parte generazioni che si sono mosse in un periodo in cui la scala dei problemi è cambiata completamente, non era più individuale ma globale. Qualsiasi cosa succede assume per forza una scala globale e noi ce ne rendiamo conto praticamente subito. Questo cambio di prospettiva non solo ingigantisce i problemi, ma ti rende irrimediabilmente piccolo.

Questa sensazione però, noi esseri umani, non siamo in grado di sopportarla.

Perché, sempre secondo me, non riusciamo ad immaginare concretamente cosa significhi effettivamente una cosa descrivibile come “globale”. La nostra mente non riesce a immaginarla e noi non riusciamo quindi a contemplarla. 

Abbiamo molta più difficoltà a percepire il reale rispetto ai nostri nonni.

Questo per dire che, quando apri i social, vieni proiettato in un mondo infinito di cui non riesci a misurarne la portata. 

È per questo che poi la tua emozione, con la quale riesci invece ad avere un rapporto, ti sembra minima e ti senti spaesato. 

Uno spaesamento tipico di quest’epoca, che ci porta ad avere una concezione spesso egoistica. Perché le cose sono due: o l’egoismo o vengo sommerso dalla sensazione di non essere nessuno.

Io non so quale possa essere il modo per evitare queste sensazioni.

Sicuramente una cosa che può fare bene è imparare ad allontanarsi da questa prospettiva globale e vivere le proprie emozioni.

Rapportarsi con l’infinito può fare paura, abbiamo sempre bisogno di un’ancora per non venire sopraffatti. Un po’ come Leopardi, che amava perdersi nel pensiero dell’immenso e dell’eterno, ma lo faceva immaginandolo al riparo di una siepe.

Un’ultima domanda. Torniamo al tuo libro, il romanzo è incentrato su una cena di compleanno di trent’anni di una delle protagoniste. Pensiamo però alla tua cena dei Trent’anni, alla tua giornata di festeggiamenti, quale è il ricordo più bello che hai di quel giorno?

Quando ho compiuto trent’anni il mio compleanno coincideva con un sabato e per la prima volta avevo deciso di festeggiare affittando un locale, facendo una cena in grande. Quella volta riuscirono a venire a Roma anche persone che non vedevo da tempo, c’erano praticamente tutte le persone che avrei voluto lì. Ed è stata una festa bellissima in cui ho sperimentato un pezzetto di stand-up comedy per la prima volta, ed è stato veramente bello e commovente.

Ripensandoci mi dico “Vedi, non era necessario esprimere un desiderio perché inconsapevolmente già si stava realizzando.

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