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Il primo nemico di Fela Kuti era l’ignoranza

Il primo nemico di Fela Kuti era l’ignoranza

La quarta serata del Live Rock Festival 2015 è stata una meravigliosa e fortissima dichiarazione di indipendenza. Una fortissima e meravigliosa dichiarazione di coscienza, rispetto e solidarietà. Le cosiddette Buone Pratiche, che vanno dall’ecobicchiere lavabile, che toglie le maree di bicchieri plastificati a intasare i canali di raccolta rifiuti, l’acqua potabile gratuita e per tutti, lo ‘spreco utile’ del cibo, i coperti biodegradabili, sono l’alone virtuoso che erge il festival a essere prima di tutto un motivo di approfondimento. Il contesto che viene costituito dalle tematiche ideologiche, dalle scelte musicali, dai canali di comunicazione e di aggregazione, mettono il pubblico vasto nella posizione favorevole per la riflessione, il gusto dell’approfondimento, l’apertura mentale. Seun Kuti & The Egypt 80 sono stati il dato fisico, il nucleo irradiante e più eloquente possibile per veicolare questo tipo di impostazione ideologica.

Io vorrei sapervelo spiegare chi è stato Fela Kuti, e come suo figlio Seun Kuti porti avanti da quasi vent’anni il Verbo del padre. Vorrei spiegarvelo come un personaggio enorme, nigeriano, all’orda delle più disparate esperienze artistiche e di attivismo politico, abbia accentato le ritmiche della rivoluzione, dato forma al suono di un nuovo umanesimo, generato dai sentori dei popoli di quelli che erano indicati come “terzi mondi”. Vorrei sapervelo spiegare come i moventi ideologici da cui la musica afro beat acquisisce perni strutturali, siano in realtà valori universali di umanità e condivisione. Il panafricanesimo, il sogno cioè di un’Africa unita, libera e indipendente, non schiavizzata, dovrebbe essere un postulato per la connivenza totale del globo terrestre, nel suo irradiare messaggi di pace e tolleranza, di mescolanza religiosa e razziale, di interesse verso la diversità, di abbattimento di barriere. Vorrei sapervelo spiegare di come il popolo nigeriano, e in generale i popoli africani, siano stati depredati per secoli di materie prime (tangibili e sprituali), di libero pensiero, di coscienza, e di come i popoli africani siano poi stati manovrati da poteri metamorfici, interessi finanziari, nei vari segmenti postcoloniali; interessi che hanno guidato golpe militari, inutili lotte fratricide per indipendenze apparenti, sempre dipendenti però da obbligate e malcelate schiavitù, in nome di un benessere venduto dagli occidentali.

Ma non posso. Non posso spiegarvelo. Non ci riesco. Non ci riesco, giacché la violazione di diritti umani, il totale asservimento coatto di un intero continente, oggi, mi pare, non indigni, non sia più motivo di scossa. Dovremmo essere sgomentati da quanta poca umanità esca dalle bocche di molti occidentali, che vivono con noi, respirano la nostra stessa aria, che mettono al mondo dei figli e impongono loro anche un’ipotetica protezione dal confronto, vissuto come minaccia, il confronto vissuto come emergenza.

Non c’è conoscenza senza confronto. E l’ignoranza è la base di ogni malignità, razzismo, di ogni odio.

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I Pink is Punk sono dei DJ. Sono stati resident djs al Cocoricò per cinque anni. Hanno suonato dopo Seun Kuti & The Egypt 80. Una scelta di line-up che detta così potrebbe sembrare casuale, anzi forse troppo forzata, eccessiva. Sembrano appartenere a una categoria aberrante nei confronti della storia di Fela Kuti e delle sue battaglie. Invece è anche questo un emblema. Un’osmosi. Un meraviglioso contagio. I Pink is Punk, nelle poche battute scambiate prima dei concerti al parco dell’ex fierale, hanno espresso un concetto chiaro sulla contaminazione, sulla percezione che il pubblico ha della musica oggi; la musica è un’espressione, e come ogni essere umano ha un’espressione diversa, così più culture sfruttano moduli espressivi musicali diversi. Quello che tutti dovrebbero fare, nella musica, così nel rispetto dell’umanità, è comprenderne il più possibile, cercare di capire le basi e le evoluzioni di un percorso umano. Tenere ben salde le proprie radici, le proprie conoscenze, e confrontarle con tutto ciò che c’è fuori, per arricchire e nutrire sé stessi e gli altri.

Lamberto Lucaccioni è morto a Riccione per qualcosa di cui tutto il contesto in cui è cresciuto è colpevole. Il non rispetto per la club culture, il non rispetto per vent’anni di techno e per vere e proprie istituzioni storiche a cui questa cultura fa riferimento.

Perché sì, d’ignoranza, si può anche morire.

(photo credits – Pasquale Modica – Live Rock Festival Acquaviva)

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