Tra sagre, feste, pranzi della domenica e cerimonie di tutti i tipi, siamo immersi nei pici in Valdichiana. Ma non si tratta soltanto di questa pasta della tradizione: ci sono tanti altri prodotti tipici locali, con sagre dedicate e rivendicazioni territoriali. Quali sono gli strumenti di tutela e valorizzazione di questi prodotti in generale, e dei pici in particolare? Voglio condividere delle riflessioni partendo proprio dai pici, elemento tipico della storia e della cultura della Valdichiana.
I Prodotti Tipici Locali
Partiamo dalla spiegazione dei concetti, per capirci meglio. L’elemento chiave della definizione è quello di “tipicità”, che dobbiamo usare per capire a cosa ci stiamo riferendo. Nel nostro caso, la tipicità può essere definita come la caratteristica del prodotto che lo rende unico e distintivo, legato a specificità territoriali, tecniche di produzione o altri fattori distintivi.
La tipicità può essere estesa o ristretta a seconda dei contesti, ma anche del nostro modo di guardarla. Possiamo essere più o meno permissivi nel riconoscerla, e sottolineare con maggiore o minore attenzione le caratteristiche che rendono un prodotto distintivo rispetto ad altri. Ogni cosa può essere potenzialmente tipica, ragionando per assurdo; e al contempo, è vero anche il contrario.
Dal punto di vista agroalimentare, la tipicità può essere legata al territorio, alla località di quel prodotto; grazie a fattori come il clima, il suolo, le tradizioni locali e le tecniche di produzione. La tipicità può essere quindi legata a fattori naturali, ovvero esterni all’intervento umano (tuttavia, anche l’ambiente naturale è in realtà frutto della relazione con l’umanità che lo abita; ma questo è un altro discorso), oppure legata a fattori umani, quindi relativi alla cultura, alla società e alla tradizione locale. A volte un prodotto è tipico perché si sviluppa solo in quel particolare tipo di terreno; altre volte è tipico perché quella tecnica di lavorazione si è sviluppata tradizionalmente solo tra gli abitanti di quel territorio. La ricerca della tipicità può estendersi nei settori più disparati; ma ciò che conta è che venga riconosciuta, e quindi valorizzata.

I marchi di tutela e valorizzazione
Fin da quando ci siamo resi conto che la tipicità possiede un valore, allora si è cercato un modo per tutelarla e valorizzarla ulteriormente. Questo modo è stato quello di creare dei marchi di certificazione: un bollino di qualità che fa sapere a tutti che quel prodotto tipico è veramente tipico e che ha quindi un valore economico superiore rispetto a ciò che non è tipico.
L’Unione europea, con il Regolamento 1151/2012, ha creato un sistema di marchi per proteggere e promuovere i prodotti alimentari tipici dei Paesi membri. Il sistema si basa su tre livelli di protezione: la denominazione di origine protetta (DOP), l’indicazione geografica protetta (IGP) e la specialità tradizionale garantita (STG). Il sistema ha uno scopo prettamente economico: vuole tutelare la reputazione dei prodotti europei, proteggendo i consumatori dalle imitazioni e informandoli correttamente sulle specifiche dei prodotti.
I prodotti con i marchi possono quindi competere in maniera migliore nel mercato globale, in virtù della loro tipicità. Tuttavia, non è detto che la presenza di un marchio sia di per sé garanzia di un incremento del suo valore economico. Una produzione ultra-tipica, che utilizza un ingrediente prodotto in un angolo sperduto del mondo per due settimane all’anno, non riuscirà comunque ad affermarsi sui mercati globali, per via della sua scarsità, pur avendo una tipicità riconosciuta.
Il ciclo della scoperta (o della ri-scoperta) dei prodotti tipici locali, prima o poi, arriva a un bivio: provare oppure no l’iscrizione a qualche tipo di marchio? Da una parte, l’apposizione del marchio viene ritenuta necessaria per dimostrare pubblicamente la sua tipicità. Dall’altra parte, la promessa di un incremento della sua tutela e della sua valorizzazione (soprattutto dal punto di vista della crescita economica) non è affatto una garanzia.
Ma è su un altro punto su cui voglio soffermarmi in questa riflessione, prima di arrivare al caso dei pici della Valdichiana: non sugli aspetti economici, bensì su quelli culturali.

L’equivoco della tipicità
Quando parliamo di prodotti tipici locali e ragioniamo sull’apposizione dei marchi, rischiamo di cadere in equivoco. Una produzione tipica, come abbiamo detto sopra, è caratterizzata da elementi distintivi. Ma per essere tale, nei casi in cui la specificità è data dalla tradizione, deve anche essere diffusa. I pici sono un prodotto tipico locale perché è un piatto della tradizione della Valdichiana: gran parte degli abitanti li conoscono, possono pescare dalla propria memoria un’infanzia in cui li mangiavano in famiglia, e alcuni addirittura li hanno “appiciati” in prima persona, non solo consumati.
Un prodotto tipico, per essere tale, è diffuso nella popolazione locale e ben conosciuto; e nei casi in cui abbia vissuto periodi di dimenticanza (come l’aglione della Valdichiana), ci sono stati periodi nel passato in cui era diffuso e ben conosciuto. Se è tipico, fa parte della cultura locale: e a contribuire a sviluppare la cultura locale ci pensiamo tutti, in modi e forme diverse. La nostra cultura, le nostre tradizioni: i nostri beni immateriali, che sono di proprietà di tutta la comunità.
Quando a un prodotto tipico viene apposto un marchio di tutela, in realtà diventa proprietà di un consorzio di produttori; quindi non è più di proprietà di tutta la comunità locale, ma dell’insieme di quei produttori, che difendono collettivamente il marchio.
Non è una situazione troppo dissimile a quella che riguarda il diritto d’autore in generale nel settore culturale. I vampiri potranno pure essere parte della tradizione popolare condivisa, ma Edward Cullen (protagonista della saga Twilight) è proprietà intellettuale dell’autrice, Stephenie Meyer. Dracula è di Bram Stoker, anche se i suoi riferimenti sono il folclore di gran parte dei paesi europei.
In maniera simile, il vino è un prodotto tipico delle colline toscane; ma il Vino Nobile di Montepulciano è di proprietà dei suoi produttori, non dei poliziani. Tutti possiamo fare il vino, ma per fare il Vino Nobile ci sono delle regole da seguire, altrimenti non può fregiarsi di quel riconoscimento (c’è un disciplinare da seguire, non una cultura). Non confondiamo il valore economico con quello culturale.
L’ambiguità è questa: affinché un prodotto tipico diventi tale, ha bisogno di una diffusione, storicità, tipicità; insomma di una cultura, di uno spazio pubblico condiviso in tutta la comunità locale. Ma dal momento che è tipico, diventa degno di un marchio, di tutela e valorizzazione: e così facendo diventa di proprietà di qualcuno, e nessun altro può partecipare alla sua cultura, senza l’approvazione dei proprietari. I prodotti tutelati dai marchi vengono messi fuori da quel processo che li ha resi tipici: così li si rende economicamente ricchi, ma culturalmente poveri.

Il caso dei pici in Valdichiana
Passiamo al caso specifico dei pici, che ci interessa in quanto parte della comunità locale che ha contribuito a renderli tipici di questo territorio. Si tratta di una pasta della tradizione della Valdichiana, che ha fatto parte di studi recenti: ne abbiamo parlato anche nel volume dedicato, approfondendo la questione da diversi punti di vista.
Il nome deriva dal gesto che si fa con il palmo della mano, per far prendere all’impasto la forma del picio: quello che nel gergo culinario toscano è il verbo “appiciare”. Proprio questo tipo di pratica è stata iscritta all’INPAI, l’Inventario nazionale del patrimonio agroalimentare italiano creato dal MIPAAF.
I pici e l’arte dell’appiciare hanno ottenuto questo riconoscimento nel 2018: non si tratta di un vero e proprio marchio di tutela, ma di un riconoscimento nazionale che vuole dimostrare il valore sociale e culturale di una pratica che racchiude uno strumento di trasmissione delle tradizioni. Non i pici come prodotto tipico locale, quindi, ma l’arte di appiciare nel suo complesso.
Infatti la creazione dei pici non è limitata ai maestri che tramandano il sapere o agli specialisti (come può essere nel caso dei pizzaioli napoletani, diventati Patrimonio culturale dell’umanità tutelato UNESCO) , ma dal momento che stiamo parlando di un piatto povero proveniente dalla tradizione contadina, può essere facilmente preparato da tutti, senza distinzione di sesso, età o classe sociale.
Questo è particolarmente interessante nei casi delle feste popolari della Valdichiana, in cui vengono preparate grandi quantità di pici da volontari e amatori per gli stand gastronomici: in questi casi la comunità viene chiamata a raccolta attorno alla pratica dell’appiciatura, e le varie generazioni si incontrano assieme ai pendolari o alle persone originarie del paese che tornano appositamente per la festa. L’atto di appiciare insieme, diventa quindi un elemento fondamentale nel mantenere i legami sociali nelle comunità e la possibilità di essere praticata da chiunque, sotto la guida di mani esperte, aprendo a tutti i membri della comunità che poi li consumerà, la partecipazione alla produzione.

La tipicità dei pici della Valdichiana
Attribuiamo un valore positivo alla tipicità, e all’autenticità di un prodotto. Ma non sono rari i casi in cui abbiamo inventato una supposta storicità o autenticità dei prodotti tipici locali, cercando di trasformare il valore dato dalla tradizione a un incremento di valore economico.
Abbiamo studiato la storia dei pici, e possiamo a ragione ritenerli dei prodotti tipici della nostra tradizione. Ma abbiamo varianti, modi diversi di farli e di mangiarli, micro-differenze micro-locali. Perché nell’antichità non c’era un disciplinare di produzione. Non c’era, nel 300 a.C, un detentore originario della ricetta dei pici che andava a picchiare con un bastone chi li faceva in modo diverso dal suo. Quindi abbiamo una lunga storia di contaminazione, di cotture in brodo, di utilizzo di uova nell’impasto, di sughi diversi, all’insegna dell’evoluzione e del cambiamento o della continuità.
Giustamente, oggigiorno, chi fa i pici in un certo modo, vuole mantenere la tradizione portata avanti dalla sua ricetta e dalla sua tipicità. Abbiamo il disciplinare degli Amatori Pici Chianciano, abbiamo il marchio collettivo dei Pici di Celle. Ma queste sono solo delle tipologie possibili di pici, non la tipicità dei pici nel loro complesso (ovvero la loro “picità”, se così vogliamo chiamarla).
Se dovessimo considerare la ti-picità dei pici, non dovremmo considerare il prodotto in sé (se sia fatto o no con le uova, che tipo di farina utilizzare) ma la pratica sociale che ci sta alla base, ovvero l’arte dell’appiciare, la socialità del fare i pici tutti assieme. Se c’è qualcosa da tutelare e valorizzare, è proprio questa tradizione.
La ricerca della ricetta autentica del prodotto tipico locale è una trappola. I nostri gusti evolvono, gli ingredienti mutano. Un giorno magari scopriremo che la versione più simile alla più antica ricetta dei pici è quella dei ramen giapponesi; ma chi se ne frega, a noi piacciono con il ragù di carne chianina, anche se i nostri antenati li mangiavano in brodo.
L’autenticità non è un valore di per sé. La condivisone della pratica è molto più importante. Meglio perdere la tradizione di fare i pici con le briciole, se dovessimo trovare dei condimenti migliori da sostituire, piuttosto che perdere la tradizione del fare i pici tutti assieme. Lì è il vero valore, non nel prodotto. Il vero marchio è nelle persone che portano avanti la pratica dell’appiciare.
