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Identità meticce: un reportage senza maschere

Identità meticce: un reportage senza maschere

Qual è un’espressione della bellezza, se non quando ci si riunisce per provare a migliorare il mondo?

Mi appresto, qui, in questo luogo virtuale, a cercare di afferrare la bellezza del 24 marzo, trascorso in quel luogo intimo e accogliente che è il Chiostro di San Francesco a Chiusi e dove, grazie a tanti protagonisti, si è cercato di migliorare il mondo. Almeno un po’.

Non so bene da dove cominciare per raccogliere la complessità e la varietà degli argomenti e delle attività protagonisti dell’evento Identità meticce: viaggi, crocevia, incontri, organizzata da GEC Gruppo Effetti Collaterali, con Biblioteca Comunale e Informagiovani Città di Chiusi e Chiusinvetrina CCN – Chiusi Scalo e con il patrocinio di Comune della Città di Chiusi e Centro Pari Opportunità Valdichiana: una giornata talmente ricca che spero di riuscire a raccogliere con la giustizia che merita.

Il programma completo merita una lettura approfondita: troverete maggiori dettagli sia sugli sponsor dell’evento che sugli ospiti dei quali io qui vi riporterò commenti e riflessioni. Considerata la ricchezza, e la lunghezza, ho deciso di lasciar parlare loro, i veri protagonisti dell’evento, limitandomi a qualche frase per facilitare la lettura. Alla fine, tuttavia, troverete un mio commento sulla giornata. Da antropologa, non riesco a resistere e a non dire la mia!

Durante l’incontro Arte in Movimento, sono intervenuti Matteo Casilli, Laura Fatini, Verdiana Festa e Nicole Romanelli, moderati da Tommaso Ghezzi.

Matteo Casilli, fotografo, ci parla delle sue impressioni a seguito della creazione della mostra Humans, in collaborazione con Intersos sul centro di accoglienza di Crotone.

Foto di Matteo Casilli

Mi ha chiamato Intersos perché gli piacevano i miei ritratti, volevano vedere il mio occhio su questa situazione; io che per la prima volta mi trovavo a raccontare una emozione simile, mi sono presentato, sono stato con loro, ho cercato di capire i problemi, le dinamiche. Sono entrato, così, senza fare foto all’inizio. La prima volta è stato molto toccante e mi ha commosso. Personalmente, è attraverso la fotografia poi che riesco a esprimere quello che penso e provo.

Quando fotografo qualsiasi persona, che sia Morricone o uno sconosciuto, cerco sempre, se posso, di conoscerlo, prenderci un caffè insieme, capire la sua storia: questo fa la grandissima differenza, visto che per me ciò che è più importante per un ritratto è conoscere la persona, chi è. Potevo fare foto molto più di impatto, ma io se uno sta male non lo vado a fotografare. E lì faceva veramente freddo, loro hanno fame, stanno male, sono bloccati lì senza documenti, gente laureata.

Foto di Matteo Casilli

Sono molto soddisfatto del risultato fotografico in termini tecnici, come ho avuto altre soddisfazioni in campo fotografico, ma in questo caso non me ne frega particolarmente perché sono più contento se serve a contribuire a giornate come questa, per far conoscere la situazione difficile che vivono questi ragazzi.

Laura Fatini ci racconta The Giufà Project ricordandoci che:

Attenti a fermare gli uomini. Si rischia di fermare anche le storie…

Foto di Andrea Micheletti

L’obiettivo di The Giufà Project è l’incontro tra diverse culture: due differenti culture riescono a parlarsi trovando un mezzo che le rispecchi entrambe; il personaggio di Giufà è questo mezzo. Lavorando con i migranti che hanno sofferto, ad esempio, non puoi chieder loro immediatamente ‘com’è stato il tuo viaggio’, ‘raccontami di te’, né è immediato l’approccio anche con gli altri che si sono avvicinati al progetto del ‘ok lavoriamo insieme’, ‘ok facciamo teatro insieme’, ‘parlami dei tuoi problemi’; bensì: ‘lavoriamo su qualcos’altro, su Giufà, in cui ci riconosciamo entrambi’. Le arti prendono in mano il dialogo e si fa quindi musica, teatro, danza insieme. Giufà è l’inizio. L’idea quindi è riscoprire delle radici comuni per favorire l’incontro, e questo mezzo funziona: dal 2014 ho trovato circa un centinaio di storie differenti su questo Giufà, di almeno 30 paesi differenti, ed è straordinario quando cominci a chieder a qualcuno ‘senti ma dalle tue parti c’è la storia di questo saggio folle, di uno un po’ sciocco?’, trovi risposte come ‘ah sì, mia nonna mi raccontava’: è straordinario.

Io lavoro in Italia con dei ragazzi migranti qui a Cetona. Un’enorme soddisfazione è vederli lavorare con i bambini, con gli stessi ragazzini che magari lo scorso anno avevano paura di loro e vederli collaborare, giocare, interagire senza problemi.

Una difficoltà è la iniziale diffidenza delle persone a cui proponi il progetto all’inizio, anche solo semplicemente per ospitarlo – anche se per fortuna alla fine sono riuscita a trovare sempre molto interesse. Iniziale diffidenza soprattutto dagli enti, dagli amministratori, dai politici, e un po’ dagli adulti (mentre i giovani non hanno assolutamente avuto nessun problema ad approcciarsi). Le persone che si propongono per attività del genere sono già sensibilizzate, anche se magari hanno i loro dubbi nei confronti dell’integrazione, però si aprono senza problemi.

Foto di Andrea Micheletti

Negli spettacoli che propongo su Giufà ci sono tante storie, piccole storie dove alla fine si propone il messaggio dell’integrazione: ‘siamo tutti uguali’; alla fine c’è una scena in cui si tirano fuori i giubbotti di salvataggio, ci sono i migranti e si parla dell’accoglienza, e viene fuori il tema principale: ‘attenti a fermare gli uomini, si rischia di fermare anche le loro storie’, perché fai vedere alle persone che quello che ci rende umani sono le storie, il fatto di narrarci, di raccontare; fai vedere che le storie sono tutte uguali, e che alla fine le storie parlano di persone in viaggio e di trasformazione, come quelle che ci hanno incantato da piccoli.

Link utili: The Giufà Project e The Complete Freedom of Truth

Verdiana Festa e Nicole Romanelli, che insieme a Pietro Gregorini e Michela Locati hanno ideato e portato avanti il progetto Solo in cartolina, ci raccontano le difficoltà e le soddisfazioni provate.

Foto di Andrea Micheletti

Il progetto è partito in modo spontaneo, non pianificato, e penso che questo sia stato un po’ il punto di forza. Abbiamo creato un gruppo dove oltre a noi, tanti altri che non si espongono su tematiche sociali, persone che solitamente non scendono in piazza perché magari non si occupano di queste cose, invece in questa campagna hanno detto la loro e hanno partecipato: hanno trovato un mezzo per poter esprimersi. I creativi che hanno partecipato, e anche dal pubblico, ci volevano aiutare in qualcosa, ci mandavano mail dicendo: ‘Possiamo darvi una mano? Come vi possiamo aiutare?’. Quindi interessati ci sono, esistono, sono più di quelli che noi perlomeno ci immaginavamo, e con tanti abbiamo iniziato collaborazioni, ci sentiamo, si continua, magari su altri lavori.

 Abbiamo ricevuto critiche sia ovviamente da un’opposizione che aveva un’opinione diversa dalla nostra, sia dal mondo della comunicazione, che magari aveva la nostra opinione ma per cui il nostro modo di comunicare non era corretto perché ironizzava troppo. Rispetto a come di solito si raccontano i migranti, la nostra voce è un po’ meno pesante e a volte anche sarcastica, però anche molto amara, tragicamente amara.

Io quello che posso dire è che siamo riusciti a spostare un po’ il target, nel senso che abbiamo parlato a chi volevamo parlare, ossia le persone della nostra età. Ci arrivavano le cartoline da ragazzi di 18, 19 anni! E i creativi hanno dato la direzione del progetto più che noi, che abbiamo dato loro l’input ‘metti nella cartolina un luogo di mare, saluti da, e rappresenta una scena che racconta quello che succede nei nostri mari’. Noi poi abbiamo filtrato. E ora che la campagna è finita però comunque ci cercano e ci mandano altre cartoline.

Ci siamo chiamati Creative Fighters (e anche poi nei giornali ci hanno iniziato a definire così), anche se questo nome ha destato il delirio, il nome fighters ‘ah perché è violenta’, perché noi per le idee si combatte. Combattiamo con il nostro strumento: la creatività.

A metà campagna c’è stato un altro tweet di Salvini in cui diceva ‘ciao amici mandatemi le vostre cartoline’ e chiamava i suoi seguaci a inviarci delle contro-cartoline. E sono arrivate: immagini di stupri, qualcuna un po’ fascista. Erano un po’, ma neanche troppe in realtà. Lo sai, nel momento in cui decidi di fare una cosa simile, lo sai benissimo: a me personalmente sono arrivate anche email a lavoro, visto che ero il tramite con l’ufficio stampa e usciva più spesso il mio nome, solo per questione di divisione dei compiti, e quindi probabilmente ho fatto un pochino di più da parafulmine rispetto ad altri.

Noi ora stiamo facendo questo spin off sulle Alpi: con questa campagna ci siamo spostati sul racconto, sulla storia di questo Amir che attraversa le montagne, per la quale ci siamo dovuti documentare e raccogliere le storie – vere – e scrivere una storia. Amir rappresenta un po’ tutti i migranti che attraversano il confine: le cartoline sono le puntate della storia che racconta questa traversata. Quando questo fundraising finirà, dovremo capire cosa fare, come tenere questo network e magari attivarci per una campagna l’anno, non solo cartoline ma anche altre tematiche, per esempio il climate change.

Chiara Cardaioli ci racconta il momento dedicato alle letture e alle attività per bambini 0-6 e 7-11 anni.

Foto di Andrea Micheletti

Domenica pomeriggio con tante mamme che ci hanno prestato la loro voce, abbiamo provato a seminare parole e racconti in varie lingue: spagnolo, arabo, inglese, albanese, rumeno. Abbiamo creato, attraverso le storie universali della letteratura per l’infanzia, un momento vero di integrazione: è forse questo l’obiettivo più alto di una Biblioteca pubblica. È stata l’occasione per valorizzare la lingua madre, che è la lingua del cuore, del ricordo, ed è stato bello sentire l’emozione nella voce di alcune lettrici. L’iniziativa è stata coordinata dalla Biblioteca comunale di Chiusi, all’interno del programma nazionale Nati per Leggere.

GEC&BOOK: Identità meticce, presentazione libri moderata da Caterina Guidi e con gli autori Giovanni Dozzini e Bruno Barba.

Foto di Andrea Micheletti

Caterina Guidi, ricercatrice alla European University Institute, ci parla dell’incontro e dei confini mentali, oltre che fisici.

L’incontro è essenzialmente la conoscenza dell’altro, incontrandoci ci riscontriamo un po’ simili in tutto, che siano desideri, aspirazioni, problematiche, e anche diseguaglianze. Penso che la reale diseguaglianza nel mondo moderno sia legata più a condizioni socioeconomiche che altro; che questo fatto venga poi manipolato e scientemente mascherato come un altro tipo di conflitto porta in sé la vera ragione stessa del conflitto. Se ci si accorgesse che, invece, si tratta di un problema di posizione socioeconomica, forse faremmo qualcosa di più: banalmente ci arrabbieremmo tutti insieme per migliorare questa condizione.

Nell’incontro con l’altro non c’è solo la somiglianza, ma anche la differenza. Sicuramente in occasioni come queste, per esempio, ci si riscopre quello che siamo, ossia uomini, donne e fondamentalmente esseri umani, in accordo con il tema della mostra fotografica Humans. Le etichette, siano esse appunto usate per definirci migranti, o per cittadinanza italiana, sono a volte comode: il diritto internazionale per sua stessa natura, per esempio, ha bisogno di esse per definire anche la protezione delle vulnerabilità. Allo stesso modo, l’economia pubblica ha bisogno di definire chi è vulnerabile per garantire maggiore protezione sociale. Purtroppo, a volte diventa la ragione stessa del pregiudizio e della mancanza di tensione nella conoscenza verso l’altro. A volte ci fermiamo alla sua stessa definizione, che è comoda, per riassumere la condizione dell’altro e per non conoscerlo davvero.

Ho lavorato in zone fuori dall’Unione Europea, come in Bosnia, e ho avuto modo di capire e apprezzare che cosa fosse la conoscenza reale dei problemi, toccarli con mano; ho cominciato davvero a capire l’importanza del mio passaporto e l’importanza di dover attraversare una frontiera: è totalmente aleatorio e qualcosa che non hai fatto niente per meritare. Ti è capitato di nascere da una parte del mondo rispetto ad un’altra. Spesso ho riflettuto su che cosa sia davvero il confine: lo puoi definire in modo positivo, ma può escludere allo stesso tempo, e in fondo lo stato nazione così come lo conosciamo è una creazione recente rispetto alla storia dell’umanità, solo tre secoli!

L’idea Europea è un po’ il superamento dei confini nazionali all’interno di un territorio comune, e la sua fragilità l’abbiamo vista quando qualcuno è venuto a bussare alle nostre porte e ha voluto far parte di questa terra, che io penso sia una terra di opportunità. 511 milioni di abitanti non dovrebbero spaventarsi di qualche milione di stranieri ma, anzi, essi stessi potrebbero essere i cittadini del domani di questa Unione Europea.

Penso veramente che l’approccio migliore sia di non raccontare più la migrazione con pietismo, – ovviamente senza per questo negare le tragedie del mediterraneo – garantendo prima di tutto condizioni dignitose di viaggio in sicurezza e raccontare la migrazione finalmente in un’ottica di storia dell’uomo. La mobilità è sempre esistita, e sempre esisterà. Nel bene e nel male nessuno fermerà la corsa al benessere di un altro individuo; bisognerebbe però pensarla in una prospettiva che non sia né di solidarietà né di carità, come spesso viene fatto, ma di cittadinanza, cioè nell’insieme dei doveri di cittadini e come parte di questa società europea. Io vedo questa come unica prospettiva per superare prima di tutto quello che è un confine mentale, e secondariamente quello che viene esercitato a suon di trattati dai governi nazionali.

Giovanni Dozzini, autore di E Baboucar guidava la fila – un romanzo, la storia di 4 protagonisti immaginari, ispirati però a ragazzi che l’autore conosce – ci parla di letteratura e politica.

La letteratura ha sempre un ruolo sociale e politico in senso ampio, perché incide sulle persone e sulle loro coscienze, sul modo di pensare, di sentire. Un romanzo come Babucar, per il tipo di storia che racconta, ha dei risvolti politici e sociali. Si parla di migranti, e parlare di migranti oggi ovviamente è un atto molto politico.

In particolare quello che io ho voluto fare è stato parlare di questo tema, che è enorme, in una maniera un po’ diversa rispetto a come si fa solitamente nella rappresentazione mediatica soprattutto, ma anche in letteratura. Perché negli ultimi anni alcuni libri, a livello narrativo, sono cominciati a uscire sulla questione migratoria, e la mia operazione è stata quella di proporre un racconto in presa diretta, cercando di non rivangare nel passato dei protagonisti: il viaggio, con la V maiuscola non lo racconto, bensì parlo di due giorni, di presente, cercando di raccontare il modo di porsi dei personaggi in un contesto completamente nuovo e pieno di possibilità ma anche di insidie. Il risvolto politico di questo romanzo sta nel tentativo di proporre una visione un po’ diversa di quelle persone che noi siamo abituati a considerare secondo categorie abbastanza approssimative e per luoghi comuni.

Anche se troppa poca gente legge libri rispetto a quanta ne servirebbe; anche se mi rendo conto che la gente, che viene alle presentazioni, che prende il libro in mano e lo legge, è già gente benevola nei confronti di questi ragazzi, comunque la letteratura può avere un ruolo. Quindi da un lato sento il limite della forma romanzo, dall’altro, soprattutto nel caso di Baboucar, credo che faccia pensare – d’altronde, io non voglio dare risposte, ma far ragionare la gente. Rispetto a questa grande questione dei migranti, anche chi ha un’attitudine più benevola a volte si rifà a dei cliché, per cui aderisce a uno schema un po’ pietistico: il migrante lo accogliamo, però a certe condizioni, nel senso che nel momento in cui lui non vuole più recitare la parte del ‘poveraccio’ fino in fondo cominciamo a stranirci. Il cellulare, l’ambizione di andare al mare, di fare una cosa tanto per farla: a volte anche una persona che accoglie questi ragazzi poi dice ‘eh però, non è che puoi lamentarti del vitto, non puoi pretendere anche di andare al mare, cioè vieni qua ti accolgo però, stai lì’. Leggendo questo romanzo si potrebbe un po’ cambiare il proprio punto di vista, incrinare qualche convinzione, anche legittima che una persona può avere. La letteratura deve far questo, far cambiare un po’ la prospettiva sulle cose, anche di un millimetro, perché poi uno ci ragioni, senza dare ricette o fornire risposte semplici.

Le rappresentazioni che noi abbiamo della realtà sono frutto dell’esperienza, quindi è normale da una parte affidarsi a quelle che ci vengono propinate in qualche modo, della quale ognuno fa la propria sintesi. Però, la narrativa rispetto, per esempio, all’informazione giornalistica, ha il privilegio di dare più tempo, di insistere sulle sfumature, e anche sulle contraddizioni. Quindi chi legge un libro può sfruttare questo privilegio, che ha lo scrittore ma ha anche il lettore; di conseguenza, la narrativa si fonda sulla complessità, la complessità è nemica degli stereotipi per cui, la narrativa credo che possa aiutare a scardinare un po’ la rappresentazione semplicistica della realtà e della società.

Bruno Barba, antropologo e autore di Meticcio, l’opportunità della differenza, ci regala spunti di riflessione importanti sul tema del meticciato culturale.

Prendiamo come punto di partenza il concetto di sincretismo religioso, che nasce da una reinterpretazione di due religioni che si incontrano e, a partire dalla loro unione, presentano poi un aspetto totalmente differente. Riferendomi al caso di uno dei miei campi di studio, la cultura brasiliana è tutta soggetta a questa dinamica, ovvero tutto è reinterpretazione: dalla musica alla gastronomia, e persino l’elemento biologico. C’è un salto logico forse un po’ ardito ma che in qualche modo spiega anche il fatto per il quale noi, tutti, siamo ibridi; tutte le culture sono ibride. La mistificazione della purezza, tanto dal punto di vista razziale, quanto del confine culturale, è qualcosa che si può definire ingenuo, sbagliato. Tutto è contaminato da sempre. Quindi, quando si parla di contenere confini, quando si tratta di difendere quella che qualcuno chiama addirittura la razza, si fa un’opera di disinformazione che può essere considerata o ingenua o malevola.

La migrazione, insieme alla percezione dell’alterità e all’ibridazione tanto biologica quanto culturale, è la costante più frequente nella storia dell’umanità. Da sempre gli uomini si muovono e si spostano, e questa è la ragione per cui non esistono le razze. Il fatto che le razze non esistono è dovuto al fatto che da sempre l’uomo ha scambiato geni, come anche dicono i genetisti, e come dice Barbujani tra gli altri. Queste riflessioni di fatto ci devono fare considerare l’immigrazione di oggi, soprattutto in Europa, come un fenomeno assolutamente normale, gestibilissimo – sarebbe stato, ed è ancora, gestibilissimo –, ma interessi vari fanno sì che la sua percezione sia appunto dell’ingovernabilità del fenomeno.

Io dico sempre che si perde di una cultura ciò che vale la pena perdere, magari attraverso strategie di resistenza, perché poi il destino meticcio non è un destino segnato, o tracciabile facilmente e di cui già oggi possiamo noi prefigurare i confini e gli effetti. È un processo che sicuramente avverrà come sta avvenendo e i cui effetti sono difficilmente calcolabili. Di sicuro, si tratta di effetti benefici nel lungo termine, perché le culture sopravvivono soltanto attraverso la contaminazioni. Quella cultura che si ritiene di poter proteggere, e alla quale si impone una protezione, è una cultura folclorizzata – le riserve indiane per intenderci –; mi rendo conto che possano esserci buone intenzioni alla base, ma non è così che si difendono le culture: sono gli uomini, che hanno la voglia e l’interesse a conoscere l’alterità. Un’altra mistificazione: la paura dell’altro nasce semplicemente dalla non conoscenza, o meglio, è legata all’ignoranza di che cosa l’altro è.

In questo momento, considerare ‘gli immigrati come risorse’ e prendere come paradigma i pochissimi casi in cui avvengono tragedie, diventano elementi discriminatori e critici, separanti, legati a un certo modo di pensare fortemente ideologicamente orientato. Pensando invece agli effetti macroscopici del fenomeno, è innegabile rendersi conto che le culture, gli uomini, la biologia, tutto ciò che ha a che vedere con il contatto, è favorito dal contatto stesso.

Sul ruolo e i doveri dell’antropologia oggi…

I doveri oggi sono intanto a rimediare a una percezione che l’antropologia storica ha contribuito a creare – non dimentichiamoci che le teorie evoluzioniste, il razzismo stesso, il differenzialismo, le enfasi date anche, magari con buone intenzioni, al multiculturalismo come sottolineatura della diversità, possono produrre una tendenza all’incomunicabilità. L’idea meticcia serve apposta a superare, a dare un’accelerata alla proposta multiculturalista, perché se il multiculturalismo accetta le diversità, le inserisce però in un ambiente, in una città, in un contenitore sperando in una pacifica convivenza. Il meticcio, questa convivenza la propone attraverso la capacità di ricreare stimoli culturali, e attraverso l’idea che i fatti e le usanze possano sempre essere migliorabili. L’uomo è tendenzialmente creativo, non passivo, e fruitore di quello che si chiama, appunto, cultura. Se qualcuno usa la cultura come alibi e come se fosse una cappa dalla quale gli uomini non possono né ribellarsi, né discutere, Jorge Amado ci ricorda invece che il razzismo si combatte a letto; il razzismo si combatte attraverso l’osservazione, la curiosità e il desiderio di conoscere l’altro e dell’altro scegliere ciò che ci fa bene.

Se in Europa la narrazione è legata alla tradizione, alla purezza, allo stesso tempo l’antropologia ci insegna che le tradizioni, la purezza, l’idea di razza, di confine, di Stato, sono tutte finzioni, creazioni contingenti e storiche che si possono, così come sono state proposte, riproporre, cancellare, modificare, modellizzare.

Conclusioni

Per concludere quella che si è rivelata una raccolta di riflessioni ricchissima, nonché un momento di dialogo fondamentale, cercherò di essere breve, mantenendo però la speranza che si continui ad affrontare queste tematiche da un punto di vista critico e riflessivo molto a lungo e approfonditamente.

Difatti, quella che ritengo sia la vera ricchezza di eventi come quello che si è svolto a Chiusi il 24 marzo, è finalmente dire le cose come realmente sono, scevri da maschere ed illusioni. A mio parere, solo parlando chiaramente, e onestamente, saremo in grado di migliorarci e di crescere.

Credo che se da una parte Identità meticce abbia riunito e invitato al dialogo i fautori di tanti progetti, uno più bello dell’altro, e attività stimolanti – citiamo nuovamente la mostra Humans, The Giufà Project, il progetto Solo in Cartolina, l’arte in live del collettivo Becoming X – Art+Sound Collective, le letture per i bambini a cura di Biblioteca Comunale e Informagiovani Città di Chiusi, con gli operatori di Nati per Leggere Siena, il tutto condito dall’aperitivo con i vini dell’ Azienda Agricola Nenci –, e che quindi abbia mostrato come esista un’Italia attiva e viva nei confronti dell’integrazione, dall’altro abbia sollevato due idee importanti, in particolare.

Sarò brevissima, perché breve deve essere, secondo me, il tempo in cui tutti noi possiamo renderci conto del poco che serve per iniziare a migliorare la situazione attuale.

Una realizzazione chiara, e semplice, che:

La mobilità è parte della storia dell’uomo da sempre.

La migrazione non deve essere vista con pietismo, ma come la normale corsa al benessere di un altro individuo, cosa che facciamo tutti in un modo o nell’altro.

Senza confini mentali. Quelli che vengono creati per paura dell’altro, quando la paura è un sintomo della mistificazione di una società attuale che vuole imporci le sue regole ma che, fortunatamente, consciamente o inconsciamente, siamo in grado di resistere, e resistiamo.

Vediamo orizzonti dove voi ancora tracciate confini.

[Valentina, 28 anni]

 

 

Foto in copertina di Andrea Micheletti, opera di David Ferracci del collettivo Becoming X

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