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Chianini nel Mondo:intervista a Luca Mazzetti

Chianini nel Mondo:intervista a Luca Mazzetti

La Valdichiana riparte e non poteva mancare il ritorno della rubrica “Chianini nel Mondo”. Dare voce a chi è nato nel nostro territorio ed è poi andato via (chi perché voleva, chi perché ha dovuto) è uno spunto importante e interessante per noi che ad ora invece viviamo la Valdichiana. 

Questa volta abbiamo incontrato Luca Mazzetti, chianino d.o.c., che tiene a precisare di essere di Acquaviva, luogo che per lui, nonostante abbia vissuto a Milano e ora sia in Svizzera, ha sempre risposto alla parola “casa”.

Luca è un designer, per la precisione di biciclette, un’industria a cui si è appassionato nel modo più naturale possibile, cioè andando in bici. Con lui abbiamo parlato del suo percorso di studi e lavorativo, del modo in cui dopo tante ricerche ha finalmente trovato il lavoro che voleva fare e di come nei nostri paesi, seppur piccoli, chi cerca di fare la differenza c’è. Per lui, la differenza vera, l’ha fatta il Collettivo Piranha, una seconda famiglia, che ogni anno incontra e rivive durante il Live Rock Festival di Acquaviva.

Ti va di raccontarci un po’ chi sei? Parlando anche di Acquaviva, sulla quale hai posto un’enfasi degna di nota

“Nato a Montepulciano nel 1994, sono della generazione prima dello smartphone, lo dico perché avere vissuto nella provincia senza troppi stimoli dati dal telefono mi ha costretto a trovarmi e costruirmi cose da fare. Un’attività che facevamo con i miei amici, che  ad ora pensando al lavoro che faccio ricordo con un sorriso, era costruire piste e rampe per le bici, da cui nella maggior parte dei casi cadevamo, ma era bello così.

Al di là di questo, parlando della scuola, ho frequentato il Liceo Scientifico a Montepulciano. Su questa scelta ci ho ripensato poi in futuro, non so se l’ho fatta per pigrizia mia o meno. Avrei forse dovuto fare l’artistico, visto anche ciò che mi piaceva fare nel tempo libero, ma devo dire che, scelta giusta o meno, ciò che ho imparato negli anni del liceo mi è poi servito nel momento in cui ho scelto l’università. 

La scelta dell’università è stata abbastanza naturale. Sapevo che non mi sarebbero piaciute facoltà come ingegneria, e la mia passione, che mi accompagna sin da piccolo nell’immaginare e nel produrre oggetti reali, tangibili, mi ha portato a scegliere la triennale in Design del Prodotto Industriale.

Sono così andato diretto a fare il politecnico a Milano, dove, quando ho finito la triennale ho iniziato la magistrale in Product Design for Innovation. Ho deciso di fare una magistrale in inglese per avere un po’ più di respiro internazionale, in quanto mi era mancata l’esperienza dell’Erasmus, a mio parere necessario.

Cambiare aria è qualcosa di essenziale, soprattutto per lavori come quello che faccio io dove avere nuovi stimoli in continuazione è la base per ciò che andrai poi a immaginare. Non solo io, ma quasi tutti i miei compagni di triennale, abbiamo fatto questa scelta sapendo che purtroppo saremmo poi finiti a lavorare all’estero, visto che in Italia il nostro mondo ha davvero poche opportunità.

E’ stato un biennio interessante devo dire, da qualsiasi punto di vista, tutti i professori erano italiani e la maggiore parte parlavano l’inglese (male), ma la parte veramente bella è stata potere collaborare e lavorare con menti non italiane, che avessero una costruzione del pensiero diversa da noi.”

Non hai fatto l’erasmus, ma probabilmente il cambiamento improvviso da una realtà provinciale come Acquaviva a una città come quella di Milano deve essere stato abbastanza importante.

“Sì è vero, è cambiato tanto, più che altro, ciò che ha influito per la maggiore nel cambiamento è stato sentire il distaccamento con casa mia. Tornare con il treno, farsi quattro ore di viaggio, mi ha fatto capire che effettivamente ero lontano, in un altro posto. Infatti, se i primi periodi cercavo di tornare almeno una volta al mese ho poi iniziato a tornare ogni quattro o cinque mesi.

Ma nonostante io parli di necessità di cambiare luogo, di abbracciare il cambiamento devo dirti che Milano non è mai diventata casa mia, il mio luogo. Casa per me è sempre stata Acquaviva nonostante io sia sempre stato in giro negli ultimi anni.

Se Milano non era casa mia allo stesso tempo è però stato interessante capire il cambio di prospettiva dalla provincia alla città, soprattutto il cambio di offerta. Vedere le vetrine, i poster, le insegne, le pubblicità, mi ha stimolato molto a livello creativo. 

Ma a un certo punto sorgeva sempre il problema della stanchezza, di essere stancato da ciò che dava Milano, è una città che ti dà tanto ma allo stesso tempo un po’ ti toglie le energie.

Da Milano sono infatti poi tornato, sia a causa della pandemia sia a causa di motivi familiari, e sono riuscito a rigenerarmi.”

Addentriamoci nel mondo del lavoro. Parlando del periodo milanese, non hai solo studiato ma hai anche affrontato la famosa “gavetta”, come è andata?

“Mi urge ringraziare la mia famiglia quando si parla di questo periodo, senza di loro, considerando che il mio stipendio da gavetta non bastava neanche per l’affitto, non ce l’avrei fatta. 

Ho lavorato dal 2016 fino al 2020, prima attraverso internship durante gli studi e poi nell’effettivo, ma sono sempre rimasto a un livello base di retribuzione nonostante le responsabilità crescessero e fossero abbastanza. 

Sono però riuscito a lavorare in un mondo che mi ha sempre affascinato, quello dell’industria 4.0, la nuova tipologia di industria dove si usa molto la programmazione al computer per costruire, così da non essere legati a un numero minimo di oggetti in produzione ma alla personalizzazione di massa. 

Prima sono stato preso come intern da WoodSkin, un’esperienza molto bella, sia perché era la mia prima vera realtà lavorativa, sia perché ho collaborato con una persona che mi ha proprio formato, che mi ha aiutato a gettare le basi per il mio pensiero da designer. Sfortunatamente con loro la mia collaborazione si è fermata con la conclusione del progetto per il quale ero stato assunto. 

Dopo sono stato preso in un’altra azienda di stampa 3D, CARACOL, che tra l’altro ora è diventata abbastanza importante, considerando che quando ci ho messo piede io eravamo in 5 contando i 3 founder e ora hanno più di 50 dipendenti. Anche questa è stata un’esperienza interessante in quanto mi hanno praticamente lasciato libero, ho fatto il designer in autonomia per la prima volta. Ho parlato con i clienti, ho concordato il progetto e tutto. Qui sono veramente cresciuto tanto. 

Questo il progetto a cui ho collaborato, su questo io mi sono occupato della parte iniziale poi è stato finalizzato da Karen Antorveza:

La gavetta in questo è stata funzionale, però sono arrivato a un punto in cui non era veramente più sostenibile e così sono tornato a casa. Mia mamma aveva poi dei problemi di salute e come solito fare ho preferito mettere avanti la famiglia.”

Sei ritornato ad Acquaviva ma non ti sei fermato, hai iniziato a mandare decine di domande di lavoro, ma da questo momento a quando ti sei ritrovato in Svizzera nell’industria del ciclismo, cosa è successo? Ma soprattutto, perché le biciclette?

“In realtà non mi ci sono ritrovato né in Svizzera né nel mondo delle biciclette, la mia è proprio una passione.

A Milano, agli inizi mentre studiavo, ho iniziato a fare consegne con la bici, non di cibo, ma consegnavo documenti e altro materiale. Giravo Milano in qualsiasi angolo e mi sono iniziato ad appassionare a quelle due ruote che mi ci portavano. Considera che ad ora possiedo nove bici, quindi puoi comprendere quanto sia qualcosa che mi piace. In più all’interno del mondo universitario, soprattutto milanese, la questione bici rappresentava un tema molto caldo.

Ho così iniziato a fare dei piccoli progetti, per hobby, ma ho accettato i primi lavori sempre con la consapevolezza che avrei voluto lavorare nel mondo dell’industria ciclistica. 

Così quando ho iniziato a mandare curriculum ho cercato di selezionare aziende che collaborassero o lavorassero in questa industria. 

Poi un giorno su Linkedin ho trovato un designer conosciuto nel mondo del ciclismo che cercava un assistente e io mi sono proposto. Ho collaborato a dei primi progetti come suo assistente, poi ho preso in mano un progetto in totale, per Colnago, un’azienda italiana produttrice di bici da corsa. 

Senza questo “caso” probabilmente non sarei riuscito a entrare in questa industria, sicuramente i progetti che avevo fatto in autonomia mi hanno aiutato, ma devo dire che c’è stata una buona dose di “fortuna” nell’accettare questo lavoro che sembrava casuale.

In quel periodo ho smesso di mandare candidature, ma a un certo punto, lavorando lui come freelance, mi sono reso conto che il lavoro iniziava a diminuire; ho ripreso a mandare CV e mi sono arrivate ben cinque proposte. Queste richieste e ciò che si portavano dietro non mi hanno spaventato e così mi sono messo a valutarle. 

Conoscere il nuovo è qualcosa che ho sempre cercato di fare, la maggior parte delle volte non so se poi mi piacerà o meno, ma so che qualcosa, nel frattempo, l’ho acquisito di sicuro. È una cosa che era già successa con l’università e con il designer con cui stavo lavorando in quel periodo. Sono del parere che il nuovo aiuta sempre a formare un giudizio o un pensiero che non siano banali. In quel momento mi sono anche reso conto del fatto che non ho mai avuto problemi a buttarmi e accettare sfide nuove, cosa che può sembrare overwhelming, ma che per chi è come me è qualcosa di assolutamente normale.

Così li ho contattati, mi hanno chiamato per offrirmi il lavoro e dopo quindici giorni ero qua. Sapevo essere una bella occasione, farmela scappare o ritardarla non avrebbe avuto senso.

Ad ora sono quindi di base in Svizzera e lavoro per Scott Sports. 

Non posso però dirvi altro perché i miei progetti sono in fase di lavorazione, ma appena usciranno sono abbastanza sicuro, che almeno di uno, ne sentirete parlare…”

Ad ora sei in Svizzera, ma poco fa sei ritornato ad Acquaviva per aiutare il Collettivo Piranha nella costruzione del Live Rock Festival. Come ti ci sei ritrovato a essere parte del Collettivo?

“È qualcosa con cui sono cresciuto in simbiosi. 

Mi ricordo quando con i miei amici pulivo i bicchieri per terra perché ero troppo piccolo anche solo per sparecchiare o servire ai tavoli. Sin dall’inizio mi sono fatto tirare dentro a questa macchina con tutto il corpo e ciò che ne segue. Ora mi ritrovo a lavorare tutto l’anno al Festival, soprattutto per quanto riguarda la parte comunicativa. La comunicazione è una delle poche cose che non richiedono un lavoro manuale e una presenza fisica nell’organizzazione, e per me farla significa affiancare e aiutare le persone che sono lì a montare e sudare e a fare avanti e indietro per cercare di fare sì che tutto sia perfetto. Alla fine per me fare queste cose per il LRF è diventato parte integrante del mio lavoro e lo affronto con la stessa professionalità. 

D’altronde è un modo per rimanere in contatto sia con la mia casa sia con le mie persone. “

Soffermiamoci un attimo su questa necessità di rimanere in contatto con la tua casa, con il luogo in cui sei cresciuto. Molti dei chianini che sono passati per la nostra rubrica, non considerano più casa la Valdichiana o perlomeno la vedono solo come il luogo dei ricordi. Invece in te si nota proprio una volontà di continuare ad appartenere alle tue radici, come mai?

“Non lo so come mai, ma posso dirti che quando sono andato via, quando sono venuto qua in Svizzera mi sono sentito in colpa ad andarmene. Mi sono detto “ci sono così tante cose che potrebbero essere fatte qua e che non vengono fatte, che avrebbero bisogno di persone che le creano, e io invece vado via”. Mi sono sentito in colpa perché invece di mettermi a lavorare e cercare di rendere casa mia il posto in cui effettivamente potrei stare sempre me ne andavo.

Poi mi sono detto “Vado via per poi tornare”, per portare ciò che imparerò qua, per creare cose che possano essere interessanti non solo per i turisti ma anche per chi ci vive. So che il turismo è necessario per la nostra realtà ma forse dovremmo strizzare l’occhio a chi ci vive.

Quando sono tornato ho cercato di dare vita a un progetto che coinvolgesse le bici, donando nuova luce a un campo abbandonato, ma purtroppo non è andato a buon fine. 

Ci sarebbero tante possibilità per il nostro territorio, anche solo nel coinvolgimento delle bici. I luoghi accanto a noi hanno capito il loro potenziale e hanno aiutato i ciclisti a trovare i loro spazi, non capisco perché, vista la bellezza dei territori e le possibilità, non lo facciamo anche in Valdichiana. Anche perché, come ci sarebbero decine di progetti che possano coinvolgere la bici, ce ne sono almeno altri cento che possono coinvolgere altre mille realtà sostenibili e da promuovere.

Fortunatamente ci sono realtà a Montepulciano, soprattutto sociali come il Collettivo, che si stanno impegnando, ma non dovremmo accontentarci. Così mi sono ripromesso di raccogliere tutto ciò che posso in giro in questi anni per poi tornare e riportarlo con gli interessi. 

Potere dare vita ad altre realtà come il LRF, che non puntano a nomi conosciuti per attirare persone, ma che puntano a offrire nuove possibilità culturali e di conoscenze, così da arricchire chi vive nel nostro territorio, è quello su cui si dovrebbe puntare in Valdichiana.”

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