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Un giro a Londra per parlare di multiculturalismo e intercultura

Un giro a Londra per parlare di multiculturalismo e intercultura

Vi è mai capitato di passeggiare per le vie di Londra? Sicuramente, almeno una volta nella vostra vita, è successo. Quando è capitato a me, in occasione del mio ultimo viaggio nella capitale britannica, mi sono trovata a riflettere sulle nozioni di multiculturalismo e intercultura. «Perché?», direte voi. Beh, se vi è capitato di passeggiare per le vie londinesi la risposta risulterà chiara. Per dirla in poche parole, è difficile trovarsi a camminare per strada circondati da inglesi e basta. Più facile sentir parlare svariate lingue da tutto il mondo, osservare diverse sfumature di colore di pelle, o diversi lineamenti del viso ed espressioni corporali.

Insomma, Londra è meravigliosamente multiculturale.

A seguito di questa asserzione piuttosto banale e di dominio comune, colgo quindi l’occasione per affrontare il discorso riguardo a questo tema.

Si utilizzano principalmente due termini per definire un contesto in cui più società convivono sullo stesso territorio; spesso, erroneamente, essi vengono confusi e associati come sinonimi: multiculturalismo e intercultura.

Nel momento in cui il termine multiculturalismo è entrato in vigore alla fine degli anni Ottanta, ha designato quel tipo di contesto nella quale società diverse convivevano tra loro. Tale accezione ha perdurato nel corso degli anni, ma il dibattito teorico e interdisciplinare su tale parola è arrivato in seguito alla constatazione che si trattasse di un concetto statico. Il multiculturalismo dava l’idea di un mondo dove culture diverse convivessero nello stesso luogo ma non si incontrassero mai.

Un concetto statico che poco ha a che fare con la realtà dei fatti, insomma. Dalle parole di Ugo Fabietti: «Il mondo infatti non è statico, fermo. Per quanto a noi possa rassicurare l’immagine di culture ben localizzate sul territorio (così come l’idea che coloro che ad esse appartengono possiedono delle identità localizzate), gli esseri umani si spostano, viaggiano, comunicano, confliggono, scambiano». Rimando a un precedente articolo nel quale avevo già parlato del cambiamento sociale.

L’esigenza di una nuova semantica divenne quindi impellente. Oggi, infatti, è preferibile riferirsi a un contesto di interculturalità. Intercultura, in effetti, rappresenta esattamente il dinamismo che caratterizza il nostro mondo. Oggi questo termine rappresenta l’idea che le società che convivono in uno stesso territorio si aprano le une alle altre, apprendano reciprocamente e si trovino in un contesto di incontro dinamico, interculturale appunto. Soprattutto in ambito pedagogico, dove sempre più si incontrano figli di diverse società, deve risultare pressante «l’invito a non considerare la cultura/le culture in modo statico, descrittivo e museografico», attraverso «un’attenzione verso le prospettive dell’antropologia culturale, e ad una sua rilettura in chiave pedagogica che stimola il confronto non più sulle culture dell’altrove pensate in modo esotico, ma sul ruolo dei soggetti quali creatori di significati culturali», come riportato da G. Benvenuto in La scuola diseguale. Dispersione ed equità nel sistema di istruzione e formazione.

La riflessione quindi che scaturisce dall’analisi semantica di questi due concetti riguarda principalmente la presa di coscienza, da parte di noi abitanti, di un mondo multiculturale che agisca a livello interculturale. Ossia di un mondo fatto di società diverse che convivono tra loro ma che non si chiudano in tanti pezzi separati tra loro, ma che interagiscano e siano fruitori di nuove interazioni dinamiche.

In conclusione, queste le parole illuminanti di Ugo Fabietti:

Un mondo in movimento è senz’altro più difficile da rappresentare di un mondo fermo […]. Un mondo fatto in questo modo è più difficile da rappresentare di un mondo in cui tante “culture”, tante “società”, tante “etnie” venivano comodamente localizzate nello spazio come le macchie colorate di un puzzle. Non è un mistero che l’antropologia e le scienze umane e sociali in genere, abbiano preferito offrire un’immagine dell’umanità “a scomparti”, dove ogni cultura corrisponde a una società e a un territorio ben delimitati. Ma oggi, in una situazione di delocalizzazione e di erranza sempre più accentuate, sono i nostri modi di rappresentare gli scenari che ci stanno di fronte a dover cambiare. E a dover cambiare sono anche i nostri modi di pensare quotidiani. Non si tratta di abbandonare le nostre certezze, i nostri radicamenti, le nostre identità. Si tratta solo di prenderle per quello che sono: delle realtà forti, potenti, di cui abbiamo certo bisogno per esistere; ma anche delle realtà costruite, stratificate, frutto di incontri con altre identità. “Costruzione dell’identità in contesti plurali” significa anche questo: essere disposti ad accettare l’idea della propria identità come “costruzione” per potersi incontrare con gli altri.

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