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Chianini nel mondo: intervista a Luigina Ciolfi

Chianini nel mondo: intervista a Luigina Ciolfi

Per la seconda intervista di Chianini nel mondo abbiamo parlato con Luigina Ciolfi, chianina doc nata ad Arezzo ma cresciuta a Sinalunga. Luigina è una professoressa universitaria presso la University College Cork in Irlanda ma in passato ha lavorato e vissuto anche nel Regno Unito, a Sheffield, per 8 anni. Il campo di cui si occupa e che ci ha subito incuriositi è “human-computer interaction” (interazioni tra persone e tecnologie digitali). Studia quindi il ruolo delle tecnologie nell’esperienza umana e tra le varie tematiche di cui si occupa c’è la fruizione dei beni culturali (soprattutto nei musei) tramite mezzi digitali. 

Ma come si arrivare a studiare le interazioni fra tecnologie e umani, in ambito specifico, nei musei? Cosa bisogna studiare? E tra queste interazioni ci sono i social network?

Le curiosità sarebbero molte e Luigina ci ha risposto in modo impeccabile!

Quale è stato il tuo percorso di studi? E come ti sei approcciata a questo mondo? 

“Dobbiamo partire dal presupposto che mi è sempre piaciuto connettere discipline diverse, partendo da qui posso parlarti del mio percorso accademico e lavorativo. Mi sono diplomata al Liceo Classico nel ’94 (Montepulciano), laureata in Scienze della Comunicazione (Siena) e ho preso un dottorato in Computer Science all’Università di Limerick (Irlanda). Sono stata docente sia in dipartimenti di informatica che di scienze umanistiche e sociali. Dal 2017 sono professoressa ordinaria, e adesso faccio parte del dipartimento di psicologia applicata qui a UCC. 

Probabilmente se guardiamo il mio percorso può sembrare che ci sia stato un cambiamento di rotta a un certo punto, ma ho sempre amato connettere discipline diverse, come detto prima, e quando ho scoperto che a Siena c’era un corso in cui potevo studiare materie umanistiche e tecnologiche mi sono iscritta a Scienze della Comunicazione-interazione uomo macchina,  specializzandomi in tecnologie. Mentre mi stavo specializzando ho avuto l’opportunità di partecipare a un progetto europeo che mi ha portata a considerare la possibilità di fare un’esperienza all’estero. Infatti proprio grazie a questo ho avuto modo di conoscere dei professori esteri, tra cui un professore irlandese, che mi ha offerto un contratto a breve termine, grazie al quale ho deciso di iniziare un dottorato in human-computer interaction.”

Come è stato cambiare il posto in cui vivevi in un’età così cruciale?

“Devo dire che probabilmente non ho sentito questa  grande difficoltà; oggi ci sono tante possibilità per immaginarsi la vita all’estero, tanti modelli da raggiungere e possiamo pensare di non farcela, quando lo proposero a me non c’era la possibilità di pensare, lo accettai e basta.

Probabilmente c’è stato attimo in cui ho pensato: dalla chiana all’Inghilterra come vado, cosa faccio? Ma la cosa fondamentale, che mi ha permesso di partire e di restare, è stata smettere di cercare di fare combaciare la mia vecchia vita con il posto in cui ero arrivata; fermarsi e ascoltare cosa succederà è la chiave, non bisogna fermarsi sulle cose che sono cambiate ma su come potresti approcciarti a questi cambiamenti.”  

Ti va di parlarci del tuo campo di studio, ovvero le interazioni fra persone e tecnologie?

“Il campo è immerso tra l’informatica, l’ingegneria, le scienze sociali e i design dal punto di vista più creativo (sistemi di comunicazione e interazione); c’è tecnologia in così tanti vari aspetti che include anche strategie di marketing. La disciplina poi offre varie opportunità a seconda del contesto in cui si sviluppa: ci sono alcuni paesi che si concentrano sulla parte tecnica, altri che sono più orientati alla parte umanitaria. Qui insegniamo un corso che è metà nella scuola di psicologia applicata e metà in quella di informatica; quindi gli studenti hanno la possibilità di connettere tutte le discipline. 

Il campo delle interazioni fra persone e tecnologie si è poi sicuramente ampliato e modificato con l’avvento dei social. Tutto si è complicato partendo dall’aumento dei campi di interesse come politica, scienza, cultura…”

Ora ti occupi soprattutto di interazioni tra umani e tecnologie digitali nei beni culturali, ma cosa significa?

“Il ruolo delle tecnologie digitali nei beni culturali è uno degli ambiti di cui mi occupo da più tempo, ma all’interno di esso si sono ulteriori campi. Quello di cui mi occupo io è “Interpretation of cultural heritage”, quindi l’interpretazione che un visitatore fa del bene culturale, che sia un oggetto fisico o qualcosa di intangibile (tradizione popolare). Quello di cui mi interesso sono le possibilità che le persone hanno di creare un rapporto con qualcosa che bene o male è preservato, e considerato di valore da un punto di vista culturale e sociale, e come le tecnologie possono supportare più tipologie di interpretazione di questa relazione (da quella più didattica e quella più emotiva).

Ho lavorato su vari progetti, soprattutto europei, cercando di sviluppare idee, che non sono state messe in atto soltanto per soddisfare il concetto di “C’è una tecnologia interessante, proviamola!”, ma soprattutto perché questa idee avevano un senso e un valore. La cosa interessante è che quando ho iniziato a lavorare su questi argomenti, quando ero ancora una studentessa in Italia, c’era un modello di fruizione dei beni culturali molto tradizionale (didattico), mentre già nel mondo anglosassone veniva enfatizzato molto più il ruolo sociale, culturale ed emotivo dei beni culturali. I beni culturali ricoprono spesso il ruolo di riferimento forte a un’identità che i locali hanno e che leggono in questi. Una cosa che a me interessa molto, perché anche dal punto di vista italiano ci sarebbe modo e possibilità di fare vedere il patrimonio culturale in modo meno convenzionale, che potrebbe creare rapporti molto forti tra cittadini, territorio e quello che è conservato nel museo o simili. 

La tecnologia può quindi essere utile perché molto spesso ciò che si trova nei musei è fragile e intoccabile, il visitatore non può avvicinarsi all’opera se non rispettando determinati limiti, che la tecnologia può annullare o perlomeno diminuire. In questo modo la relazione con l’oggetto materiale acquista una sfera più emotiva, sociale e personale.”

La parola principale del tuo ambito di lavoro è interazione, immagino quindi che a seguito dei progetti venga svolta un’indagine con il pubblico per comprendere le loro impressioni e il modo in cui hanno interagito con il progetto…

“Sì, una delle cose principali che si fa nell’interazione uomo-macchina è l’aspetto di valutazione con gli utenti finali, con il pubblico finale, che è fondamentale nel processo di sviluppo delle tecnologie stesse.

Per mia esperienza questo lato dipende molto dalle dimensioni e dal tempo disponibile del progetto;  se si tratta di scale più piccole è possibile condurre valutazioni in laboratorio e poi portarle nei musei, altri progetti invece hanno la fortuna di avere più risorse e più tempo (mostre aperte al pubblico di 8/9 mesi), dove abbiamo migliaia di visitatori e quindi una maggiore possibilità di imparare a progettare partendo dall’esperienza del visitatore stesso.

La progettazione non nasce soltanto dal punto di vista della tecnologia, ma da come chiaramente rappresentare le reazioni che poi ci sono state da parte del pubblico, dell’utente, che ti spiega cosa gli è successo, cosa ha percepito durante l’esperienza che tu hai progettato.

Uno dei progetti più recenti che abbiamo realizzato è CultureLabs, una piattaforma digitale per la condivisone di progetti inclusivi nel campo culturale. La piattaforma è ispirata da progetti pilota per l’inclusione sociale nei beni culturali, incluso uno in Toscana guidato da Fondazione Sistema Toscana.”

Se tu fossi ora una studentessa di venti anni andresti comunque via?

“È una domanda difficile, sono cambiate tante cose. Sicuramente il settore accademico è rimasto un settore in cui ci si muove e sposta molto, quindi probabilmente mi sposterei comunque verso l’estero. Se vogliamo però analizzare il problema dell’Italia e dei giovani ricercatori italiani che si spostano all’estero, dobbiamo dire che, come aveva detto Michele Punturo, il flusso d’uscita non ha un flusso d’entrata corrispondente.

Se tralasciamo questo problema, nella fuga e nell’andare via, a mio parere non c’è nulla di male. La voglia di fuggire è un senso che appartiene a tutti a una certa età. Qui alla fine dell’Università tutti vanno a fare un anno all’estero, supportati da schemi di visto, e poi tornano, perché è un percorso necessario, un approfondimento culturale. È normalissimo, non c’è un dramma dato dal fallimento di non riuscire ad andare via o dal tornare perché non si è riusciti, anzi probabilmente per come lo vedo io, il fallimento sta nel negarsi e nel sopprimere questo senso di fuga, di cambiamento. 

Quindi sì, probabilmente me ne andrei via comunque, ma non perché consideri meno alcuni miei amici o colleghi che hanno deciso di restare, solo perché credo che questo fosse la scelta giusta per me. Anzi dobbiamo dire che, se dopo un periodo all’estero, nessuno decidesse di tornare a casa non potrebbe esserci qualcuno a dare vita a uno scambio di cultura e di informazione necessario.”


Se foste interessati al lavoro di Luigina e al suo gruppo di ricerca “People and Technology” a University College Cork vi lasciamo il link del gruppo qui:

https://www.ucc.ie/en/apsych/research/people-and-tech/

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