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Dolore, medicina e Sciamani di Comunità

Dolore, medicina e Sciamani di Comunità

Lo scorso inverno ho svolto un’inchiesta sull’apipuntura in Valdichiana e mi ero ripromesso di tornare a occuparmi di questa tematica. Con il passare dei mesi, tuttavia, mi sono reso conto che ero più interessato alla riflessione antropologica, relativa a tutti gli argomenti toccati nel corso di quelle settimane, piuttosto che un ritorno “sul campo” per nuove interviste.

Questo approfondimento, incentrato sul rapporto tra dolore e medicina, e sul ruolo degli Sciamani di Comunità negli ambienti rurali, prosegue quell’inchiesta, senza novità relative all’attualità. Sarà quindi interessante, o almeno me lo auguro, principalmente per coloro che hanno accolto in maniera negativa il concetto di “Stregone di Comunità” contenuto nell’articolo precedente. Andrò di seguito a spiegare meglio e approfondire ulteriormente l’argomento.

Apipuntura e Stregoneria

Nel corso dell’inchiesta, ho analizzato il caso dell’apipuntura in Valdichiana considerandolo come un caso riguardante l’ambito della medicina alternativa: un utilizzo popolare di forme non ufficiali di cura, in contrasto con il sistema sanitario pubblico. Questa pratica si svolge in uno spazio terapeutico che va a sostituirsi (o a completare) lo spazio scientifico e biomedico.

Il contesto rurale in cui svolge è clandestino e insicuro, proprio perché non è ufficiale: ma se l’efficacia di questa pratica è molto discutibile, dal punto di vista biomedico, riveste un’importanza troppo spesso trascurata, dal punto di vista sia del benessere individuale, sia del benessere sociale.

Partiamo da quest’ultimo: come già detto a margine dell’inchiesta, le forme di medicina alternativa e tradizionale, come si può considerare l’apipuntura, seppur condizionate dalle superstizioni locali, svolgono un ruolo cruciale: mettono in scena il dramma rituale di una cura che non si rivolge soltanto all’individuo, ma all’intera comunità di cui fa parte. 

“Partecipando al rito collettivo dell’apipuntura, le persone coinvolte si sentono parte di una comunità, invece che individui singoli che rischiano di smarrirsi tra ospedali sempre più alienanti e simili a dei non-luoghi. Mario Rossi cura la comunità: non è un medico iper-specialista di un unico settore (il remautologo, l’oftalmogo, il podologo), è il guaritore che cura gli anziani del suo territorio da tutta una serie di dolori cronici. Non cura il singolo individuo da un problema specifico: aumenta il benessere della sua comunità.” 

Non dobbiamo dare un’accezione negativa al termine “stregoneria”. Visto in un’ottica più vasta, e non solo dal punto di vista del mondo occidentale, il concetto di stregoneria è un fenomeno di gran lunga più complesso. In alcuni ambienti è un aspetto fondamentale della vita quotidiana, necessario per la risoluzione di problemi, anche nei casi riguardanti la terapia del dolore. Soprattutto nei casi della medicina alternativa (o comunque in contrasto con la scienza biomedica), che agisce a livello psicologico e che viene pratica da particolari individui, siano essi stregoni, sciamani, curatori o portatori di “saperi tradizionali”, che sono riconosciuti come tali all’interno della propria comunità.

La Bonifica Leopoldina della Valdichiana

L’importanza della salute nella comunità rurale

La salute pubblica è l’insieme di attività e politiche volte a proteggere, promuovere e migliorare la salute delle popolazioni, attraverso la prevenzione delle malattie e l’intervento coordinato della società, delle istituzioni e degli individui. 

L’efficacia della sanità non si misura nella somma del benessere dei singoli individui: l’insieme della società è maggiore della somma delle unità che la compongono. Non è il nostro caso specifico personale, negativo o positivo che sia, che può essere preso come metro di valutazione della salute pubblica, ma il grado di salute medio della popolazione nel suo insieme e il suo progressivo miglioramento nel tempo.

Questo è un concetto che, proprio in Valdichiana, dovremmo ricordarci bene. La storia delle campagne dell’Ottocento (Adriano Prosperi, Un volgo disperso, Einaudi, 2019) è una storia di progressivo miglioramento delle condizioni di salute. La modernizzazione dell’agricoltura, l’industrializzazione, sono periodi storici che hanno portato drastici cambiamenti alla vita delle comunità rurali, che per secoli avevano vissuto una vita sempre uguale a sé stessa.

La storia della Bonifica in Valdichiana ( Banini, Biagiotti, Iacomoni, Masina, Il paesaggio storico della Bonifica Leopoldina in Valdichiana, LaV Libri, 2023) è la storia di una battaglia contro l’impaludamento e la malaria, che condizionavano la vita dei contadini. Terreni bonificati e contadini sani, in epoca di industrializzazione, significavano un miglioramento sociale, la possibilità di rendere le campagne produttive. Meno malattie, meno povertà: più igiene, più salute.

In questo senso è stata fondamentale la figura dei medici condotti, che fino agli ‘70 erano incaricati dalle istituzioni a tutelare la salute pubblica, fornendo assistenza sanitaria gratuita ai più poveri. Nelle comunità rurali i medici condotti erano i responsabili dell’igiene, intesa come obiettivo di miglioramento delle condizioni di salute ambientale.

Obiettivo di questi medici era la salute del “paziente”, il quale era inteso come parte di un ceto popolare, nelle campagne rurali, che da una parte non aveva conoscenze sufficienti per usufruire dell’efficienza della scienza biomedica; dall’altra, volgeva in condizioni di povertà e disagio, sporcizia e malessere. La cura individuale di queste persone aveva quindi la funzione sociale di migliorare le condizioni di vita del ceto contadino, di rendere le campagne più produttive. Le condizioni di vita andavano portate a uno standard qualitativo che fosse sufficiente per vivere. 

Ma quale può essere il metro di paragone dell’efficienza di vita, un concetto così filosofico che può dare adito a pagine e pagine di discussioni? Qual è il grado di cura che possiamo considerare sufficiente, per poter dire “noi stiamo bene, noi siamo in salute”? Per il ceto contadino della Valdichiana, e non solo per loro, ma per gran parte dei gruppi sociali dell’età contemporanea, in Italia e non solo, il metro di paragone dell’efficienza della salute umana è stato uno solo: la capacità di lavorare. 

Chi è malato, non può lavorare. Chi non può lavorare, va aiutato. La cura della salute di una persona, oltre le sue capacità “meccaniche” funzionali della possibilità di lavoro, non è più un problema sociale. Non fa più parte degli obiettivi di igiene dei medici condotti, non fa più parte della salute pubblica delle istituzioni. Fa parte unicamente dell’individuo, è un “lusso” aggiuntivo che fa parte della scelta individuale. Insomma, non si parla più di salute pubblica, ma di benessere individuale.

Angelo del dolore
Angelo del Dolore, Cimitero Acattolico di Roma

Benessere, dolore e cure mediche

La nostra esperienza personale con la salute pubblica è singola, personale ed esclusiva. Se una persona soffre, se prova dolore per qualche malattia o condizione psicofisica, sente di essere in uno stato di malessere: poco importa che la salute pubblica nel suo insieme sia migliorata, poco importa che la sanità sia efficiente, per il singolo individuo che sta male.

La persona che soffre può chiedere medicine al suo dottore, può andare in ospedale per curare le emergenze, può affidarsi a tutti gli strumenti della sanità pubblica; e, a conti fatti, ognuno di noi è fortunato a vivere un’epoca in cui ciò è possibile (e in un Paese in cui i costi sono ridotti, rispetto ad altri). Tuttavia, al grado di benessere personale deve pensarci l’individuo singolo: la sanità pubblica si occupa di rendere il suo corpo abile e funzionale, per quanto possibile. Non si occupa del suo dolore, perché non lo riconosce.

Il tema centrale del benessere individuale è questo, ovvero l’impossibilità di riconoscere il dolore altrui. Nessuno può capire con esattezza il dolore degli altri, ma solo provare a empatizzare. Ognuno è solo con il proprio dolore, e noi non sappiamo mai se il dolore degli altri è davvero paragonabile al nostro (David Le Breton, Antropologia del dolore, Meltemi, 1995).

Tutti noi siamo consapevoli di aver provato del dolore, e che ne proveremo ancora. E tutti noi, consciamente o no, poniamo un limite al livello di sopportazione del dolore prima di rivolgerci a un aiuto esterno. Se sbattiamo leggermente il dito contro un mobile, sappiamo che il dolore sarà passeggero. Il rimedio della mamma, quando siamo bambini, sarebbe quello di soffiarci sopra o di “darci un bacino” (e questa è una ritualità su cui torneremo nella parte finale). Se la botta è più forte di quella a cui siamo abituati, o se ci rendiamo conto di alcuni cambiamenti fisici (bozzi, ematomi), prendiamo in considerazione delle cure. Che siano medicine fornite dal sistema sanitario nazionale, che siano rimedi alternativi di medicina popolare, non è questo il punto: facciamo da noi, ci curiamo da soli, fino a un certo livello di dolore. Ma se la botta è stata troppo forte? Se temiamo di esserci rotti il dito, se il dolore è così forte da non passare? Allora è il momento di rivolgersi a un aiuto esterno. Possiamo aspettare qualche giorno e andare all’ambulatorio del medico; oppure, se il dolore è più forte, possiamo andare subito al pronto soccorso. In ogni caso, la scelta è nostra, perché solo noi riconosciamo il nostro livello di dolore. Poi può subentrare il carattere personale, un’individuale resistenza o meno al dolore, e possono sussistere condizioni sociali o culturali che possono favorire o sfavorire la richiesta di aiuto esterno. Tuttavia, siamo sempre noi a effettuare la scelta, sulla base del dolore percepito, su che tipo di cura adottare.

Non c’è un’unità di misura del dolore oggettiva: il dolore è soggettivo. Abbiamo inventato strumenti di misura per tutto, ma non per il dolore. Ancora oggi, il personale sanitario ci chiede “Quanto dolore senti, in una scala da 1 a 10?” per poi cercare delle soluzioni efficaci.

Siamo consapevoli, quindi, che non è la presenza del dolore a indurci a rivolgerci alle cure mediche. Lo facciamo quando supera una certa soglia. Non tanto per un atteggiamento stoico di resistenza al dolore, ma perché siamo consapevoli che il problema da risolvere, per la sanità pubblica, non è il dolore che ciascuno di noi può sentire per la botta al dito, bensì la funzionalità del dito. Se il dito è rotto, la funzionalità del mio corpo è intaccata: verrò curato, avrò diritto a giorni di malattia e di riposo, di assenza dal lavoro. Se invece il dito mi fa male per una botta temporanea, la scelta di come e se alleviare il dolore è soltanto mia: è il rapporto con il mio benessere personale.

Siamo consapevoli che per meritare l’attenzione della sanità pubblica, l’intensità del dolore e l’ampiezza del disturbo debbano intaccare in maniera significativa le attività della vita quotidiana. E questa consapevolezza, in alcuni casi, può diventare un deterrente nel rivolgersi al sistema sanitario. Si procrastina il momento di consultare il medico per paura di disturbare, per timore di aver resistito “troppo poco” al dolore; e all’estremo opposto, si ha paura di vedersi strappare da amici e parenti, dalla propria comunità, per entrare in ambiente estraneo come quello dell’ospedale.

Medicina alternativa, stregoni e sciamani di comunità

In una situazione come quella sopra descritta, come si comporta chi soffre di dolori cronici? Soprattutto se si tratta di dolori continui, che non intaccano la funzionalità di base del corpo, o se non si ha più bisogno di lavorare? Ricordiamoci che tanti degli utenti del caso di apipuntura erano pensionati, persone che cercavano un alleviamento del dolore nella vita quotidiana, per sfuggire a operazioni più complesse, per migliorare il proprio benessere e la qualità di vita.

I malati cronici, coloro che condividono gli stessi dolori e le stesse malattie, possono entrare a far parte di una “Comunità di conforto”. Si cerca un terapeuta che possa offrire una soluzione, si condividono le esperienze personali con gli altri, affetti dai medesimi mali e sperimentatori degli stessi percorsi. Si scambiano consigli su medici e medicine, percorsi di cura. Ovvero, si arriva a formare una comunità informale di malati accomunati dallo stesso dolore: forse, se il dolore è personale, chi condivide la nostra stessa situazione può capirci meglio dei professionisti medici esterni, e ci può aiutare a sopportare la nostra condizione. In questo senso, il dolore condiviso forgia un’affettività comune.

In questo contesto, ecco affiorare gli stregoni – o sciamani – di comunità. Utilizzo i termini come sinonimi, anche se sarebbe scorretto, ma chiarire questo aspetto richiederebbe altri approfondimenti. In questo senso, utilizzerò “sciamani di comunità” come sinonimo di curatori, stregoni, esperti di medicine alternative, diversi dai professionisti della scienza biomedica.

In quanto curatori del benessere individuale trascurato dalla sanità pubblica, queste figure offrono un sostegno, un conforto, una possibilità, soprattutto alle persone che soffrono di dolori cronici. Dando questo aiuto individuale, danno allo stesso tempo anche un aiuto sociale, perché intervengono laddove la sanità pubblica si ferma, e così facendo migliorano il benessere della comunità.

La somiglianza è quindi più vicina ai medici condotti di cui parlavamo prima: non in quanto esperti della scienza biomedica, ma in quanto interessati a curare la salute pubblica di una comunità nel suo insieme.

Quando parliamo di sciamanesimo e stregoneria non parliamo soltanto di pratiche magiche, pseudoscientifiche, dalla dubbia utilità, anche se siamo abituati a usare questi termini in forma dispregiativa e colonialistica nei confronti di società altre, considerate primitive (Alice Bellagamba L’Africa e la stregoneria, Laterza, 2008). Parliamo principalmente di figure che svolgono un ruolo per il benessere collettivo, per la guarigione fisica e spirituale, che non fanno parte soltanto del nostro passato, o di popolazioni lontane da noi, ma fanno parte anche della nostra esperienza attuale e presente, e in generale di tutte quelle situazioni in cui sentiamo che la sanità pubblica abbia curato soltanto la funzionalità del nostro corpo e non abbia alleviato il nostro dolore. 

Greca Pusceddu, Sinnai – Sa mexina de s’ogu (La medicina contro il malocchio)

La medicina che cura la comunità

Di curatori popolari è piena anche la nostra tradizione, in Valdichiana. Ricordo ancora quando, da piccolo, mia nonna mi faceva il rimedio contro il malocchio: la pratica consisteva nel riempire un piatto d’acqua, aggiungerci qualche goccia d’olio e, infine, recitare delle formule di scongiuro. 

Non mi riferisco soltanto a sopravvivenze culturali, superstizioni o credenze irrazionali e pseudoscientifiche. Il rito contro il malocchio, per quanto inefficace dal punto di vista biomedico, è innanzitutto il riconoscimento di uno stato di sofferenza di una persona che fa parte della famiglia o della comunità. Chi riceve il rituale di cura si sente accolto, compreso, riconosciuto. Nessuno andrebbe al pronto soccorso per lamentarsi di uno stato di malessere che non precluda le funzionalità del corpo.

Nella tradizione sarda, e non solo, la cura al malocchio viene chiamata “medicina” (Clara Gallini Dono e malocchio, Flaccovio, 1973) e non è un caso che il termine abbia la stessa ambiguità della sua controparte scientifica. Di solito, chi sa fare la “medicina” è una “donna adatta”, che recita delle formule e compie dei gesti e delle azioni, la cui finalità è l’allontanamento del male. Una serie di “medicine magiche” che servono a curare lussazioni, torcicollo, mal di stomaco dei bambini, spaventi e altre forme di malesseri.

“Può perfino non reggersi neppure sul possesso di una formula segreta: vale piuttosto il prestigio conferito da una tradizione di successi. La loro professione viene esercitata come un atto di “carità” che, per essere efficace, non deve richiedere compenso in denaro: si possono accettare però piccole ricompense in natura – uova, zucchero, caffè, ecc – che non sono considerate pagamenti, ma doni, segni di “riconoscenza”.”

Rieccoci di ritorno al caso di partenza, all’inchiesta sull’apipuntura. Anche in quel caso, il curatore che possiede la “medicina” non riceve un vero e proprio pagamento, ma una piccola ricompensa in segno di riconoscenza. Anche in quel caso, l’intervento delle api serve a curare alcuni malesseri che colpiscono i membri della comunità e per i quali non ci si rivolge ai medici o agli ospedali (o si viene rifiutati da essi, perché giudicati non bisognosi della sanità pubblica).

In questo senso, ho considerato il curatore popolare di apipuntura come uno stregone/sciamano di comunità perché interviene a curare il benessere di un gruppo, in un territorio rurale, che ha perso la fiducia nel funzionamento delle istituzioni sanitarie. Che le pratiche funzionino oppure o no, è di secondaria importanza, perché hanno un’influenza sociale, prima che individuale.

George Elgar Hicks “Woman’s Mission: Comfort of Old Age” (1862, Tate)

Conclusioni: l’importanza dei rituali e degli sciamani comunità

In conclusione, affrontiamo quella che è la domanda più scomoda: queste pratiche sotterranee di medicina alternativa, queste “medicine” degli sciamani di comunità, funzionano davvero?

Se si parla di efficacia, è ristretta all’ambito della terapia del dolore. Come abbiamo approfondito prima, il dolore è soggettivo e concerne la sfera individuale del benessere. In questo caso il “funziona se ci credi”, per quanto potrebbe sembrare ingenuo e ottimista, può avere delle basi effettive.

Riprendendo gli studi sull’effetto placebo, la convinzione che la “medicina” sia un mezzo efficace di sollievo ha un effetto sulla nostra percezione del dolore. La consapevolezza che la propria condizione sia riconosciuta, che la comunità stia facendo qualcosa per il dolore individuale, ha un effetto sul nostro corpo; l’atteggiamento stoico di sopportazione del dolore, di distanza dalla sanità pubblica, non funziona.

“La tecnica medica non basta, anche se è indispensabile. L’esperienza delle cure palliative o dell’accompagnamento dei morenti attesta che l’efficacia delle cure e il lenimento del dolore vanno di pari passo con la percezione, da parte del malato, di essere riconosciuto e compreso. Se sente di esserci, negli occhi e nei gesti di coloro che lo curano, se sente intorno a sé la loro presenza, il malato resta attore della propria esistenza. […] Curare è prima di tutto prendersi cura. Il lenimento efficace del dolore, implicando contemporaneamente un’azione sulla sofferenza, sollecita una medicina centrata sulla persona, non solo su dei parametri biologici.”

In questo senso, possiamo dire che la magia funziona. Ha un effetto grazie alla simbologia dei suoi rituali: lo sciamano di comunità che pratica il suo rito e applica la sua “medicina” ha un ruolo effettivo nella nostra percezione del dolore, se ne siamo partecipi. E allora funziona anche il “bacino della mamma” sulla botta presa: non perché le labbra materne abbiano proprietà taumaturgiche, ma perché quel piccolo gesto rituale ci fa percepire il riconoscimento da parte dell’altro del nostro dolore, la consapevolezza che la distanza incolmabile tra la sofferenza personale degli individui sia in qualche modo alleviata dal senso di far parte della medesima comunità.

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