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Il brigante Gnicche, tra storia e leggende popolari

Il brigante Gnicche, tra storia e leggende popolari

Gran parte dei territori rurali del nostro Paese ha almeno un brigante di riferimento, la cui figura storica assume caratteristiche che sfociano nel mito e nella leggenda: personaggi che diventano protagonisti di racconti e storie popolari, tra fantasia e realtà. È questo il caso di Gnicche, rinomato ad Arezzo e nella Valdichiana, vissuto nel XIX secolo, la cui fama ha attraversato le nostre campagne in epoca più recente rispetto a quella di un altro famoso brigante, Ghino di Tacco (vissuto nel XIII secolo).

Federigo Bobini, detto Gnicche, si inserisce pienamente nella storia del brigantaggio in Italia del XIX secolo, che ha restituito numerosi casi di banditismo avvolto da un’aura di romanticismo: soprattutto nelle aree rurali, dopo l’unità d’Italia, i briganti che vivevano fuori dalla legge potevano acquisire aspetti positivi di resistenza all’unificazione, che in alcune occasioni è stata vissuta dalle comunità locali come una forma di invasione e colonizzazione, o comunque come una cesura storica che ha provocato fortissimi mutamenti politici e sociali.

Come accaduto per tanti altri briganti italiani, la fama negativa di Gnicche (brigante fuorilegge, assassino e violento) si è accompagnata agli aspetti positivi della figura del bandito (la cui rappresentazione più famosa è probabilmente Robin Hood, che ruba ai ricchi per dare ai poveri) e si è diffusa per più di un secolo nelle campagne aretine. Ma, come spesso accade, alla storia ufficiale si accompagnano numerosi miti, dicerie e leggende popolari.

La storia del brigante Gnicche

Nato ad Arezzo nel 1845, Federigo Bobini proveniva da una famiglia umile, e già all’età di 19 anni si fece notare dai carabinieri per aver organizzato una piccola banda dedita al crimine; dopo aver derubato il padre ed essere stato condannato per furto, continuò a rapinare le abitazioni nelle campagne aretine, che gli valsero un’altra condanna nel 1865. Uscito di prigione, abbandonò definitivamente i lavoretti che svolgeva in giovinezza, per dedicarsi unicamente alla vita da fuorilegge.

Gnicche passò gli anni successivi tra furti e rapine, dedicandosi prevalentemente al gioco d’azzardo per estorcere soldi alle famiglie più ricche. Nonostante fosse ricercato, continuava con i suoi crimini lungo le campagne aretine, senza rinunciare alla passione per il ballo e a tornare saltuariamente a dormire presso la sua abitazione aretina. Durante una di quelle notti, nel 1868, venne catturato e condannato per furto e violenza pubblica; uscito di galera dopo sei mesi, venne nuovamente condannato in contumacia a otto anni.

Da quel momento Gnicche visse totalmente da fuorilegge, ricercato dalle forze dell’ordine. Nel novembre del 1869 commise il primo omicidio, quando colpì a morte il carabiniere Luigi Gnudi che aveva circondato assieme ai colleghi la casa della sua fidanzata Francesca Borghesi, presso cui si stava nascondendo. Fuggito ai carabinieri, pochi giorni dopo assalì violentemente due persone nelle campagne tra Cortona e Bettolle, a scopo di rapina. Nell’agosto del 1870, inoltre, sparò a un passante dopo una diatriba presso Ponte alla Chiassa, ferendolo gravemente.

Gnicche venne catturato dai carabinieri nell’ottobre del 1870, scovandolo presso un nascondiglio nelle campagne aretine. Durante il processo annunciò di voler collaborare con la giustizia, ma approfittò nel tempo guadagnato per evadere dal carcere di Palazzo Pretorio assieme a cinque ergastolani e un secondino corrotto, dandosi alla macchia con l’intero gruppo.

Durante l’ultimo anno di vita, Gnicche e la sua banda divennero ancora più violenti: venne ucciso un altro uomo a Sargiano e una donna a Creti. La sera del 14 marzo 1871, infine, il brigante venne scoperto dai carabinieri nei pressi di Tegoleto. Venne catturato, ammanettato e portato verso la caserma; tentando una disperata via di fuga, Gnicche venne poi colpito da una pallottola di fucile sparata dai carabinieri, e ferito all’altezza dei reni. La ferita fu letale, tanto che il brigante raggiunse la caserma che era già morto.

Miti e leggende popolari

I miti, le dicerie e le voci che circolavano attorno alla figura di Gnicche si erano diffuse nelle campagne aretine già durante la sua breve vita. Dopo la morte non fecero che aumentare, tanto che per alcuni divenne un eroe difensore dei deboli e che rubava soltanto ai ricchi. Era inoltre circondato dalla fama di gentiluomo, con numerose amanti ad Arezzo e dintorni; amava danzare con le donne e si presentava camuffato durante i balli, anche durante la latitanza, sempre vestito in maniera elegante.

Proprio attorno a questa sua abitudine sono nati alcuni curiosi aneddoti: una volta, per riuscire a intrufolarsi di nascosto presso i giardini del Prato ad Arezzo e passare la serata a ballare, trovò una donna in un vicolo e le ordinò di consegnargli i vestiti. La signora obbedì e si diede alla fuga, mentre Gnicche passò la serata a danzare vestito da donna.

La sua importanza è celebrata anche dal punto di vista architettonico: lungo la strada per San Fabiano si può trovare la Torre di Gnicche, che secondo la tradizione era uno dei nascondigli del brigante. Le sue gesta venivano diffuse nelle feste paesane o nei mercati, le sue storie erano protagoniste dei canti improvvisati in ottava rima durante le veglie, e la sua figura ribelle ha affascinato molte persone.

L’utilizzo della violenza, nei racconti che hanno Gnicche come protagonista, è sempre accompagnato da aspetti di galanteria o di rispettabilità: ad esempio, secondo la leggenda, prima di morire il brigante trovò il tempo per complimentarsi con il carabiniere che gli aveva sparato per l’ottima mira. Oppure, secondo un’altra storia, donò il fidato coltello al proprietario della villa cortonese presso cui si era recato a giocare d’azzardo, per dimostrare di essere un gentiluomo e di non aver paura di lui.

Le leggende attorno alla figura di Gnicche sono state protagoniste di numerose poesie o canzoni popolari, diffuse principalmente lungo le campagne aretine. Esiste anche un fumetto scritto da Francesco Guccini e disegnato da Francesco Rubino, che ne riporta le gesta, assieme a numerose pubblicazioni locali. La parola è poi passata nella parlata locale, tanto che tuttora nel dialetto non è raro sentir apostrofare un bambino particolarmente vivace come: “Sei peggio di Gnicche!”

 

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