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“Venere in Pelliccia”: una donna è sempre qualcosa in più di una donna

“Venere in Pelliccia”: una donna è sempre qualcosa in più di una donna

Il drappeggio nero che si incurva e si corruga, per tutto il perimetro delle tre pareti di palco di Venere in Pelliccia è un cucchiaio gotico d’obnubilamento drammaturgico, come contenesse un dato fisico fuori da tempo e storia, fuori dallo schema critico del presente. Su un piano rialzato, pavimentato d’un rosso lucido, si staglia la giustezza dei realia della scena: siamo in un’ex fabbrica, adibita a sala prove per audizioni. Valter Malosti, sé stesso, cerca un’interprete femminile per il ruolo di Wanda Von Dunayev, la protagonista dell’opera che vuole portare in scena: un adattamento di Venere in Pelliccia di Leopold von Sacher-Masoch. Si presenta alle audizioni una Sabrina Impacciatore/Vanda Jordan inizialmente sguaiata, volgare, quanto più lontana dalle prospettive del personaggio che dovrebbe interpretare, ma che poi si rivelerà in maniera decisamente convincente, una grande attrice, dimostrando di aver compreso fin troppo la forza del personaggio.

A Chiusi, la sera del tre dicembre 2016, ha fatto tappa al Teatro Mascagni, aprendo il cartellone della Fondazione Orizzonti d’Arte, l’opera di David Ives con la regia di Valter Malosti: una co-produzione Parmaconcerti, Pierfrancesco Pisani e Teatro di Dioniso, in collaborazione con Infinito e Fondazione Teatro della Fortuna di Fano/AMAT. Una platea colma e tre ordini di palchetti stipati hanno accolto con profondo favore lo spettacolo. La stagione di Chiusi decolla molto bene, con tanti applausi e qualità dell’offerta artistica dimostrandosi uno dei maggiori teatri del territorio. 

Sulla scena il divano-letto impero, in velluto rosso – già estremamente caratterizzante di per sé – un mixer luci, un faretto, il tavolo del regista e una colonna, decentrata sulla sinistra, che sembra un rudere dorico e che in realtà – viene esplicitato da Malosti – è ciò che rimane dell’impianto di areazione della fabbrica che un tempo occupava lo stabile.

I due personaggi, regista e attrice, elementi basici del fare teatro, si ritrovano a incarnare, in maniera mescolata, durante le due ore di spettacolo, sia loro stessi che i personaggi interpretati – secondo il copione del regista – con l’aggiunta dei plurimi rimandi mistici dei nuclei testuali che dall’opera di Masoch sfarfallano: la Giuditta biblica e le Baccanti di Euripide, i cui continui parallelismi aiutano nell’edificazione di una chiave di lettura organica dello spettacolo.

Sabrina Impacciatore valica quattro toni diversi, sviscera possibilità fonetiche che giocano continuamente sullo switch tra ottocento e contemporaneità, tra volgarità e compostezza, citazione biblica e tragicità venerea. Tutta la potenza della sua interpretazione si risolve in una compresenza di comicità e drammaticità sbalorditiva. Contralta Valter Malosti che – forse volontariamente, forse no – alla multidimensionalità della sua controparte femminile, non risponde con altrettanta polifonica effervescenza, mantenendo il profilo basso dell’uomo di teatro, del regista tronfio e dell’imperturbabile maschio alfa.

Ottimi i quadri, specie quelli conclusivi, gli elementi simbolici, le catene citazionistiche Masoch-Giuditta-Euripide-Lou Reed-Ives, vengono concertate nei gesti – chiari, equilibrati e scanditi inequivocabilmente sia dalla tecnica degli attori che nel modulo di rappresentazione – e in pochi emblemi fisici (la pelliccia, il copione, la minigonna). Grandissima parte dell’efficacia dello spettacolo è giocata attraverso la suggestione sonora: la musica pianistica, il fitto lavorìo fonetico sia nei diaframmi delle due entità recitative della scena, sia nell’amplificazione esterna, spesso effettata, che risulta valore simbolico aggiunto nei passaggi mediali dei livelli rappresentati. Ottima anche la gestione delle luci: il neon centrale, obliquo, di un bianco laccato, freddo, passa ad essere rosso, in momenti di spannung sensuale, stroboscopico nei momenti di delirio dionisiaco, e caldo nei momenti in cui l’intimità tra i due inizia ad ammorbidire la narrazione.

Uno spettacolo che nella sua integrità è definibile corretto, preciso, giusto nella consegna al pubblico dei suoi simulacri testuali, del suo vettore narrativo. Uno spettacolo giusto, perché sulla giustezza tra tragedia e commedia, tra registro alto e basso, tra filologia ecdotica dei dialoghi e ironia complementare, trova la sua potenza. Ricordiamoci che stiamo parlando di un testo portato alla fama internazionale dalla trasposizione al cinema di Roman Polański, ed è difficile – tremendamente difficile – non incappare in involontari paragoni con i bravissimi Emmanuelle Seigner e Mathieu Amalric, che nella disposizione cinematografica interpretavano i due protagonisti. Alla luce di una tale premessa, si può dire che il Malosti-regista (quello vero, non quello interpretato), sia riuscito a sorreggere la responsabilità di una rappresentazione italiana che arriva dopo la trasposizione filmica.

Le chiavi di lettura sono molteplici, contrastanti. È un’opera teatrale tratta da un romanzo considerato caposaldo della cultura BDSM (il masochismo, è bene ricordarlo, prende il nome proprio da Leopold von Sacher-Masoch), e ancora oggi suscita controversie, imbarazzi e strane dispersioni retoriche, sintomo di una ancora acerba maturità sessuale della società. Le questioni sono anche sollevate dal grado zero dei personaggi in scena, la cui base recitativa regala anche spunti per chiose distaccate dalla vicenda interna: è questa una vicenda oscenamente maschilista, in cui una spiritualità più grande, superiore, accetta solamente un rapporto di dominio del maschio alfa, ripudia un rovesciamento dei ruoli e interviene a garantire un ordine incontrovertibile? O viceversa, la strenua ostinazione di chi obbliga l’altro ad essere dominato rappresenta comunque di per sé una sopraffazione? Lo spettacolo, nel modo efficace con cui usa la carta del daimon iperuranico del teatro, che lascia investire gli attori di un’aura spirituale evanescente, extracorporea, che ipersensibilizza i recettori di sensualità, lascia aperta qualsiasi compenetrazione: anzi, rifiuta – per stessa ammissione del protagonista – una critica alla contemporaneità, ai rapporti sociali, ma tenta solo di smuovere negli spettatori il subbuglio orgasmico di un rovesciamento di ruoli.

Uno spettacolo che nella sua violenza, nella sua diffrazione retorica, mugola femminismo tragico. Nella parabola di un rapporto tra i generi che si equilibra nella pretesa di una sottomissione e di un dominio, tra chi acumina e chi si fa vertice, l’uomo è un paradosso, un inetto monotòno, un panno sciorinato bistrattato dai venti, e la donna è un abisso di probabilità, è consapevolezza implicita, è mutazione continua e univocità compresente, la squisitezza del male che punisce la tracotanza dell’antieroe. Nell’epoca in cui nessuno si lascia più sopraffare dalle emozioni, l’impeto venereo della femminilità ostentata cade sulla sfera maschile come un’invidia divina, uno phthònos theòn: un uomo che si oppone a Venere finisce per perdere il senno, una donna, invece, comunque vada, è sempre qualcosa in più di una donna soltanto.

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