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Siamo tutti FAKE – l’hip hop esplosivo di Epic Fake

Siamo tutti FAKE – l’hip hop esplosivo di Epic Fake

Dieci anni fa, sui banchi del liceo ginnasio Poliziano, nell’imperizia e nell’ingenuità dell’età puberale, tentavo, turbato dai primi segnali di distonia con il mondo circostante, di scrivere testi rap, con metriche che non tornavano mai, rime che si chiudevano forzatamente e un flow che faticava ad avere una forma. Sognavo, con una vergognosa attitudine naif, di essere un master of ceremonies capace di sconfiggere Busta Rhymes in una gara di freestyle.

Più approfondivo i poemi omerici, più venivo a conoscenza della figura degli aedi, dei rapsodi, dei tenzoni a due voci nella letteratura popolare, e più avvertivo il rap come la più nobile tra le espressioni poetiche contemporanee. I liricisti italiani entravano nel linguaggio comune dei discorsi che facevo con gli amici, le perifrasi dei rappers andavano a costituire la base linguistica dello slang, che ogni gruppo di amici elaborava.

Quel sogno è rimasto un sogno, o meglio, è stato coperto da altri sogni, più prosaici ma non meno irrealizzabili. Qualche anno dopo, quando ormai per me il rap non era altro che un estemporaneo sottofondo alle mie esperienze musicali giustapposte, un gruppo di ragazzi, in quello stesso edificio scolastico, ha trasformato il sogno in realtà. La più interessante forse, nel panorama artistico della valdichiana.

Quel gruppo di ragazzi si è ingrandito, ha catalizzato le migliori forze della cultura hip hop della zona e le ha coadiuvate in direzione di un progetto comune; smuovere la cappa provinciale, lo spleen opprimente che – anche se ben lontani da Parigi – assume oggi la stessa forma di quella milza interna che opacizzava le sinapsi di Baudelaire. Quel gruppo di ragazzi, dalla precocità artistica rara (i più grandi tra loro hanno ventun’anni) è diventata una crew hip hop, un collettivo di artisti, rappers, video maker, beat maker, rigorosamente accomunati dalla provenienza geografica: la TOSCANA SUD.

Da poco è uscito l’ultimo prodotto (di una lunga serie che non accenna a finire) della crew, ed è il disco solista di FAKE (a.k.a. Simone Falluomini). Si intitola EPIC FAKE ed è scaricabile gratuitamente da qui (http://www.honiro.it/download_fake-epic-fake.html ) Lo incontro, insieme ad altri due elementi della compagine T.S.; FEDOK (Federico Livi) e META (Marco Mello), in un bar di Montepulciano.

La prima domanda che mi viene in mente di fargli riguarda il suo nome d’arte. Un ‘fake’ è quello che, fino a poco tempo fa in ambito punk hardcore era definito ‘poser’. Ovvero un fasullo, un impostore, una persona falsa che si riveste di tracce e immaginari che non gli appartengono.

FAKE FAKE FAKEFAKE, tu fai riferimento più volte al tuo “alter ego”rapper. In generale qual è lo scarto tra Simone e Fake?

FAKE: A differenza degli altri generi il Rap necessita uno street name. Essenzialmente non c’è il significato che molti possono immaginare. Ti posso dire che i nostri nomi li abbiamo scelti un pomeriggio da piccoli. La ricerca era orientata verso un “nome fico”, non tanto un nome che evocasse significati particolari. Il Fake ovviamente è al pari del Sucker, non è una grandissima figura, anzi è decisamente negativa. È una provocazione. L’alter ego eponimo che dà nome a tutta la scena. Con questo nickname volevo ‘accusare’ questo spazio artistico nel quale, pare, l’unico che potrebbe sfondare adesso è un ‘fake’ dichiarato.

Quindi secondo te l’essere genuini è un pregio o un difetto, in ambito hip hop?

FAKE: Teoricamente è un pregio, sì. In ambito hip hop c’è una disciplina ancestrale che vuole la personalità degli artisti quanto più veritiera e spontanea possibile. Il problema è che anche il rap è cambiato e si è adeguato al mondo nel quale è immerso. Se la teoria vede la genuinità come pregio, la pratica, e quindi la società contemporanea, esige il “fake”; l’unico modo per avere successo è modificare i propri veri valori. Modificare la realtà privata significa adeguarsi al contesto sociale di oggi. Dire veramente ciò che si pensa è divenuto un atto sconveniente, nel contesto sociale contemporaneo. Molto difficilmente la realtà potrebbe essere recepita dalla maggior parte del pubblico. Lo dimostrano un sacco di cose, in politica come nella vita di tutti i giorni, purtroppo.

Ti vorrei chiedere una cosa un po’ più complessa. L’hip hop nasce come immediatezza, quindi avvolto da quanta più genuinità possibile, come dici tu, però è anche vero che il rapping non nasce in questa parte di mondo; si è definito come urgenza prodotta dal disagio delle periferie delle grandi metropoli. È un genere che è nato in un contesto e, come tutte le cose in ambito artistico, si è naturalmente decontestualizzato ed evoluto in paradigmi diversi. Ecco, qui non siamo ad Harlem, né a Compton, non siamo a Scampia, non siamo nelle banlieues parigine. Siamo nella provincia toscana. Qual è il senso di fare rap in questa parte di mondo?

FAKE: Secondo me l’hip hop può crescere, in proporzione diversa dall’originale, ovunque. Nasce da una situazione di disagio. Ma non deve rimanere fisso. Uno può parlare della propria esperienza di vita a Stoccolma nell’alta borghesia come in Etiopia nel massimo degrado umano. Il rap è una cultura fissa, ciò che cambia è il mondo attraverso la quale questa è interpretata. Qui in provincia non c’era nulla di stimolante. Io mi sono appassionato fin da ragazzino a questa particolare cultura e l’ho comparata con il contesto nel quale ho vissuto e l’ho filtrata attraverso la mia interpretazione. È un malessere diverso. Certo non è il Bronx, ma è un’altra forma di disagio della quale si può parlare attraverso le forme dell’hip hop. Se parti dal presupposto che possano rappare solo persone che vivono reali situazioni di disagio pesante, allora potrebbe essere fatto solo in poche parti del mondo. In questo modo resterebbe una cultura veramente suburbana e sconosciuta. Sarebbe un gran peccato.

In uno dei pezzi migliori del disco, “Valle di Lacrime”, dici “Il mio alter ego credeva che la scena fosse tutta scena”. In realtà non è così o sì era tutta scena.

FAKE: In quella barra dico che un tempo ero convinto che il rap fosse veramente una finzione. Chi passava per radio mi stava antipatico. Credevo che per arrivare al successo dovevi avere le spinte giuste o piegarti a richieste di mercato, al sistema. Credevo che fosse tutto giostrato dalle major e dal mtv. Poi crescendo ho capito che si può sfondare anche in modo diverso. Per questo ho cercato di fare rap in provincia, con la consapevolezza che la personalità che esprimevo nei brani potesse restare invariata.

È interessante la tua ambialenza tra aggressività, la tracotanza giambica – che fa parte del gioco – e la “quiete”, quindi i testi introspettivi, più malinconici, o addirittura drammatici, dove emerge un altro tipo di attitudine, completamente diversa. Come se ci fossero due marcature diverse dentro la stessa matrice.

FAKE: È voluta questa divisione di tematiche, beat, melodie; un contrasto tra due lati di me. Mi porto questo progetto dietro da un anno. È un mixtape solista, che non ha un’identità di disco ufficiale con un concept strutturale. Sono istantanee di stati d’animo, che in momenti diversi ho trascritto e registrato. C’è il momento in cui sono più preso bene, e allora mi viene una traccia come “Toscano D.O.C.”, orgoglioso delle mie origini, o un momento in cui sono più preso male dove registro un pezzo come “Kitty Genovese”. Il dislivello c’è ed è voluto. Io sono abbastanza elastico, dal punto di vista emotivo, mi abbatto molto facilmente ma mi riprendo anche molto facilmente. Il mio stato d’animo è così e il disco ne risente.

A proposito dei beat; nel mixtape dalla Toscana Sud – quindi mi piacerebbe sapere anche cosa pensa Meta a riguardo – era tutto più old school. La sonorità era più classica e più lineare. C’ho risentito il primo Fritz da Cat, le basi di Ice One del Colle Der Fomento, roba anni ’90… In “Epic Fake” invece si sentono scivolate verso la crunk, la drum’n’bass, l’r’n’b; tutto è molto più vario. È curioso perché la dinamicità di ritmi sarebbe più aspettabile in un mixtape di una crew, dove c’è ovviamente più varietà di contenuti essendo una produzione collettiva. In un disco solista ti aspetti una compattezza più organica…

META: Ogni progetto che seguiamo è un percorso a sé stante. Condivido quello che dici; è oggettivamente vero che stilisticamente sono due progetti differenti. Per il Mixtape vol. 1 della Toscana Sud siamo andati “sul sicuro”, per un lavoro collettivo che avesse una risonanza elevata, seguendo una linea classica. Con Fake invece abbiamo voluto sperimentare. Anche perché siamo figli del rap moderno, non dell’old school, abbiamo tutti intorno ai vent’anni. Ci sembrava più legittimo cercare cose nuove. Stiamo cercando, nei nuovi progetti, di colpire l’ascoltatore con qualcosa di differente, magari di difficilmente sentito. Epic Fake è il primo passo, secondo me, verso quest’ottica.

Quali sono i vostri ascolti? Sia in ambito italiano che internazionale…

FAKE: Io ho iniziato con il rap esclusivamente italiano. Non amavo particolarmente il rap americano, agli inizi. Poi ovviamente, come ho già spiegato, ho capito quali sono le priorità d’ascolto se si vuole imparare questo mestiere.

META: Essenzialmente siamo figli dei primi dischi dei Dogo e di One Mic.

Vedi, è diverso per chi è un po’ più grande di voi (e parlo anche di me, che ho giusto quattro anni in più) ed ha vissuto la tarda golden age del rap statunitense; quando uscirono 8MIle, con le mega hit di Dr.Dre e della D12, o della G-Unit, il doppio degli Outkast e il debutto di Kanye West, il rap americano sembrava l’unico degno di nota e se ne sentiva veramente tanto in giro. Voi invece avete conosciuto prima quello italiano…

FAKE: Sì inizialmente iniziai con One Mic, i Dogo, anche grazie a META che me li fece conoscere. Io successivamente ho seguito il percorso ‘storico’ a ritroso, sempre in ambito italiano. Appassionandomi alla cultura, ho cercato di capire come hanno iniziato Neffa, Kaos One. Dopodiché ho scoperto quello degli USA che è una spanna avanti ovunque. Avanti rispetto ad ogni tipologia di espressione. Fondamentalmente il rap è nato in america…

META: …e continua in america.

Quindi attualmente quali sono i vostri riferimenti in ambito statunitense?

FAKE: Ora come ora un disco che tutti si dovrebbero ascoltare, secondo me, è l’ultimo di Drake. Poi i lavori di ASAP Rocky, ASAP Ferg…

META: Be’ ascoltiamo un sacco Kendrick…

FAKE: Certo, Kendrick Lamar… cioè tutti i rapper della nuova scuola che hanno messo in imbarazzo le fondamenta old school degli anni novanta, con metriche pazzesche e dimostrazioni di flow incredibili.

META: Ecco ad esempio ASAP Rocky è diversissimo dalla tradizione rap degli anni passati. O Two Chainz che sperimenta le basi con la Trap. Il cercare novità è diventato il must del canone contemporaneo dell’hip hop. È fondamentalmente la linea evolutiva che noi cerchiamo di riproporre nel nostro contesto, come mezzi, esperienze e direzioni diverse. Si è evoluta la percezione del rap in generale.

FAKE: Tra noi ci passiamo anche realtà non aglofone. Ascoltiamo rap tedesco e francese. Siamo abbastanza coesi nell’adorare Kaaris, ad esempio. (Quello dell’esultanza di Pogba – ndr).

Per costruire la crew c’è stato un riferimento in particolare? Qualcosa che vi ha ispirato particolarmente per unirvi in un progetto collettivo?

FAKE: il Wu Tang? (ride).

META: In realtà è stato tutto molto naturale. Senza pensarci troppo. Ci siamo avvicinanti in provincia in un periodo in cui il rap non era così mainstream come adesso. Siamo entrati in contatto senza riferimenti particolari. Facciamo da soli tutto; dai beat, ai video, dalle produzioni alle registrazioni. È autoproduzione totale pura. Non so se esistono realtà simili riconducibili a noi, non c’è un modello in particolare. È stato un evento che doveva capitare.

Per tornare a EPIC FAKE, il brano “Toscano D.O.C.” tocca un nervo interessante. In Italia il linguaggio hip hop è stato definito a Roma, a Milano, ultimamente a Napoli. La lessicografia del rap, che prende dal dialetto, dallo slang, dalle espressioni idiomatiche locali, di fatto non esiste per adesso in toscana. In “Toscano D.O.C.” cerchi di edificare un linguaggio rap toscano. Però poi sentendo tutto il disco appaiono parole come “weeda” e “sbattimento”, che sono termini appartenenti allo slang milanese…

FAKE: La situazione nel centro Italia è abbastanza piatta. Le capitali del rap italiano sono Roma, Milano, Torino. È ovvio che quando si prende un microfono per rappare in italiano i riferimenti di base sono quelli. In Toscano D.O.C. ho cercato di fare il classico pezzo metropolitano, immerso però nella realtà contadina, provinciale. Costruendo un sistema di immagini spurio rispetto al genere. Alla fine la valdichiana è la “mia città”, anche se vivo da due anni a Firenze per motivi universitari.

META: La ricerca di un nuovo linguaggio è intrinseco a quello che siamo e al motivo per cui siamo nati, credo. Noi comunque ci proviamo a prescindere. Il progetto TOSCANA SUD è la voglia di costruire un linguaggio hip hop di provincia, che non sia quello metropolitano. “Toscano D.O.C.” incamera meglio il discorso che stavi facendo. Elevare a qualcosa di diverso in un genere proprio della grande città.

FAKE: In valdichiana non si smuove niente. C’è una cappa monotona che ho voluto rompere. Ho raccolto un bagaglio di esperienze. Il rap è espressione di disagio e di oppressione e anche in provincia, come abbiamo detto, c’è un tipo di disagio e di oppressione. Io ho cercato di comunicare queste cose con il linguaggio del rap che ho acquisito dai miei ascolti, ma ho anche naturalmente cercato di imprimere ‘frame’ linguistici della zona, del contesto nel quale vivo.

META: l’obiettivo è anche questo: il far identificare ragazzi come noi, in quello che diciamo. Perché siamo in tantissimi accomunati dalla nostra stessa situazione e dalle nostre stesse oppressioni.

Nella crew come sono divisi i ruoli?

FAKE: Siamo in sette membri. sei rapper e un dj (Dj Volo). Poi c’è chi oltre a rappare fa anche il video maker, FEDOK. REIZON invece è il nostro fonico e beat maker.

META: REIZON è il fenomeno della toscana sud. Da autodidatta ha imparato a produrre, a fare beat, ed è anche un mostro di rapper. Abbiamo anche un nuovo ragazzo, Simone Ventura, che affianca FEDOK nel video making. Ci trovi i pomeriggi con le macchine a fare video. NO BUDGET ma grandi risultati. Massima economizzazione delle utilità.

Che cosa state preparando per il futuro prossimo venturo?

FAKE: questo è l’ultimo progetto autoprodotto in free download. Ora stiamo iniziando a lavorare tutti insieme ad un altro progetto. Non più un mixtape, ma un disco ufficiale, con un concept, con una linea programmatica. C’è già un’idea. Proveremo a lanciarlo attraverso una rete più ampia. Vedremo come procede.

Come cambia l’approccio dal mixtape collettivo di crew a quello solista? Anche in EPIC FAKE, tramite i vari featuring e le promozioni, si sente la presenza di tutta la crew che lavora al progetto del singolo…

FAKE: Lavorare in gruppo ti sprona a dare il meglio in tutte le strofe. Sai che hai solo quello spicchio di tempo a disposizione per dare tutto te stesso. Ci sono altri prima di te e altri dopo. C’è un po’ di sana concorrenza. D’altra parte in un disco collettivo, se voglio dire una mia idea, o se voglio esagerare, devo pensarci, devo equilibrare quello che voglio dire con il peso delle parole degli altri. Nel mio disco non ho avuto freni. Non c’ho pensato troppo sulle cose che ho buttato giù.

META: Cambia molto il metodo di scrittura, quello sì. Abbiamo la tendenza ad andare insieme in studio, consigliarci a vicenda ed essere quanto più coesi possibile. È così che nascono anche i featuring. In questo periodo abbiamo lavorato un po’ da soli. Devi cambiare impostazione ad esempio se un altro ragazzo con cui devi fare il pezzo non è sulla tua stessa lunghezza d’onda. Devi entrare in sintonia con l’altro.

Quanto lavorate sul freestyle e quanto il freestyle vi aiuta nella stesura di testi in studio?

FAKE: Lo faccio da tre anni, e devo dire che sono due cose completamente diverse. Non uso gli stessi criteri.

META: Una sacco di bravi freestyle non sono dei bravi scrittori e viceversa.

C’è stato qualche caso di dissing esterno alla toscana sud? Faccio riferimento a “Ca**o Piccolo” che sembra una serie di invettive rivolte a qualcuno ma non sappiamo chi.

FAKE: Ho voluto giocare su alcune cose; in quest’era di social, se tu metti un titolo forte in una pagina web, qualcosa di spudorato e netto, sta’ sicuro che il link lo aprono tutti. Quindi mettendo un titolo del genere ho giocato su questo. Uno vede il titolo “cazzo piccolo” e se lo va a scaricare solo per la curiosità… pensa quanto è diventato trash il pubblico medio degli ascoltatori italiani! E poi ho fatto questo pezzo per metaforizzare il fatto che molto spesso la “mascolinità” è definita dalle sovrastrutture fallaci; dalle macchine agli Yacht, dalle sigarette costose all’atteggiarsi a persona arrivata, quando magari in realtà non ci sono le basi, non c’è la rettitudine vera da “uomo” con la U maiuscola. ecco, volevo in qualche modo attaccare questa tipologia umana che per quanto si dimostri sulla vetta, resta comunque sul fondo. Poi ci sono riferimenti verso chi, in provincia, dopo di noi, ha iniziato ad ‘aggrapparsi’ alla nostra scia. Siamo stati i primi a fare dei live, a fare gare di freestyle, a girare video. Con il passare degli anni in ogni paesino trovi gente che scimmiotta quello che abbiamo fatto noi, da Chiusi a Rapolano Terme…

META: …abbiamo sdoganato un po’ il genere. Comunque dai, non ci sono stati effettivi dissing esterni alla toscana sud.

FAKE: Ci sono state discrepanze con altre persone, anche non musicisti, che ci dicevano che in provincia non potevamo fare rap. Adesso spero stiano per un po’ zitti.

META: Ecco. Noi ci teniamo a ribadire che non siamo i pagliacci che giocano a fare gli americani, non è uno scherzo o una recitina. Con determinazione e risultati abbiamo dimostrato che sappiamo fare questa roba seriamente. Non stiamo facendo i gangsta. Siamo ragazzi che non vengono dal quartiere ma dal paese e non ci è preclusa la possibilità di impostare un discorso hip hop in un contesto diverso, con altre tematiche.

E invece parlando della copertina?

META: la copertina è un segno lasciato realmente nella provincia; è un graffito reale realizzato da ignoti…

FAKE: quelli che vedi sono tatuaggi veri… (ride) no dai! L’idea è stata della ragazza che ha curato il set fotografico e grafico del disco.

Cosa hanno pensato le persone che vivono intorno a te dopo che hai lanciato il primo singolo “Il Mio Rap”, la cui punch line d’apertura recita “il mio rap è un rapporto anale con Madre Teresa di Calcutta”?

FAKE: Sì, ci sono state molte critiche per quella. (ride) È stato semplicemente un modo per spiegare cosa fosse il rap alla prima barra. La cosa più pesante che mi potesse uscire dal cervello. Di fatto per me il rap è questo; dare libero sfogo alla mia parte folle e spiazzare l’ascoltatore.

Parlando di crossover, mi è piaciuta un sacco la collaborazione che avete fatto con gli AMNESIA. (link) perché alla fine è quello che la provincia offre, il poter interagire con un ambito diverso dal proprio. La città crea tante nicchie, invece in provincia, siamo andati più o meno tutti nelle stesse scuole, i posti frequentati sono i soliti, ci conosciamo tutti e offre questi borderline spontanei…

FAKE: Per me è stato un modo per sfatare la stupida critica che chi non ascolta hip hop ti fa più spesso, ovvero che quello che fai non può essere definita “musica”, ma semplicemente parole su una base elettronica. Quando in realtà ci sono producer o beat maker che hanno una formazione musicale di gran lunga superiore a un qualsiasi chitarrista, ma a parte questo. Poter rappare su qualcosa di suonato è stata un bellissima esperienza.

META: Abbiamo fatto una bozza in studio da REIZON, al nostro home-studio. E poi abbiamo registrato ufficialmente con la band (Giacomo Angiolini alla batteria, Camilla Giannelli alla chitarra, Kevin Rossetti al basso) a Sarteano, allo Stabbiolo Recording Studio. Visto che molti ci snobbano per questa mancanza di “musicalità”, abbiamo organizzato APOCALISSE, una cavalcata crossover con un gruppo che musicalmente stimiamo. abbiamo scritto le strofe mentre il ritornello lo ha scritto Giulia Trentini, cantante degli AMNESIA. Si è unito il tutto al progetto del film (di cui abbiamo già parlato qui ndr). abbiamo creato un caso che ha generato un vortice. Poi fortunatamente abbiamo avvertito come tutto il casino volgesse a nostro favore.

FAKE: molti l’hanno vista una mossa esclusivamente commerciale per pubblicizzare la band, quando in realtà questo è stato involontario. La volontà era far riflettere sulla diffusione delle notizie false. È stato bello perché molti ci hanno fatto i complimenti; si è avvertito che finalmente c’è qualcuno con le palle che prova a spaccare la provincia.

META: anche questa è stata una mossa nella direzione della novità. Sono forme che noi diamo allo stesso messaggio; la gente si annoia a prescindere verso chi fa musica, quindi spaziamo verso generi diversi, essenzialmente per smuovere gli animi di chi ci ascolta o osserva.

Fuori dal rap cosa ascoltate?

FAKE: io mi sto ascoltando gli ultimi tre dischi di The Weekend, artista r’n’b americano, credo che a breve ne sentiremo parlare un sacco. È andato in tour con Drake e ora sta sfondando. Mi è piaciuto molto anche l’ultimo disco degli Arctic Monkeys, anche se non è proprio il mio genere. Ho filoni vasti alla fine. Io e Meta poi abbiamo questa passione particolare per Franco Califano…

META: Sì, nell’ottica della stesura dei testi credo che sia un buon riferimento, nella tradizione pop italiana.

FAKE: Poi i classici rock, ovviamente. Da adolescente ho ascoltato anche metal. Quei pezzi che ogni tanto continuo a sentirmi e che in qualche mondo alimentano il mio bagaglio.

META: È l’influenza che deve esserci da tutti i punti di vista. Se uno ascolta sempre la solita roba è difficile reinventarsi, che è quello che un artista dovrebbe fare in continuazione. Sei figlio di tutto quello che ascolti e di tutto quello che fai.

Dare una forma al nulla che si vive e renderlo ‘qualcosa’, oppure – si parva licet – la vecchia retorica calviniana del cercare nell’inferno ciò che inferno non è; la TOSCANA SUD ha fatto questo. Hanno portato un genere alieno dallo stato materiale del contorno nel quale esistevano e lo hanno reso vitale, gli hanno fatto guadagnare uno spazio artistico, hanno dato ai loro coetanei un motivo per non chiudersi nelle salette sul retro dei bar a buttare monete dentro le slot machine digitali. Quando progetti del genere crescono, prendono piede e dal fango stagnante della provincia, riescono a voltarsi verso la luce e unire i punti luminosi della costellazione, per definire qualcosa di bello, non possono che suscitare tutta la stima possibile. “Se qualcuno ancora si commuove per questa generazione non ha chiaro il punto della situazione”, cantava Noyz Narcos; il modo per rialzarci, anche Noi cresciuti al tempo della crisi, lo troviamo, state tranquilli.

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