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‘Il Marinaio’ di Pessoa-Valentini, un meraviglioso azzardo

‘Il Marinaio’ di Pessoa-Valentini, un meraviglioso azzardo

La stagione invernale del teatro degli Arrischianti si chiude con un elaborato esclusivo e ricercato: “Il Marinaio”, con testo di Fernando Pessoa regia di Gabriele Valentini. Tre donne sedute di fronte ad un cadavere, fanno una veglia funebre lunga una notte.  Tre donne, come tre Moire mitologiche, a tessere i cavi del tempo, che affluiscono attraverso le loro riflessioni, nelle rapide del ricordo, del racconto e della proiezione dell’io nel tempo.

Francesca Fenati, seduta sulla sinistra, interpreta un’entità quanto mai immobile nel pensiero e nelle azioni, rifiuta il gesto e la parola come elemento riempitivo, poiché attraverso i gesti e le parole si scandisce lo scorrere delle storie, si legittimano il decedere del corpo e la privazione dei racconti, dei pensieri e delle parole dal sé, che lentamente muore.

Martina Guideri, all’opposto, interpreta una Moira dell’azione, che s’inerpica nelle più articolate gestazioni dell’eloquenza pur di evitare il vuoto, pur di evitare il nulla; è un’entità ingenua, naïve, infantile, che accetta qualsiasi parola per non soccombere al vuoto, a prescindere dalla veridicità, dalla giustezza, dalla proprietà e integrità etica di ciò che viene detto. Ogni parola, ogni atto, è per lei fondamentale ai fini della sopravvivenza

Poi c’è la Moira centrale, Martina Belvisi, la più complessa, oscillante nell’ascolto e nell’acquisizione delle poetiche espresse dalle due entità che le siedono lateralmente. È la chiave ermeneutica del volo coscienziale nel quale ci trasporta lo spettacolo. L’entità centrale raggiunge un’appercezione critica delle cose, degli eventi, delle parole. È lei a raccontare il Sogno del Marinaio, che non ha un finale, che non risolve nessun groviglio, che non definisce nessuna morale. Un sogno che non finisce, che non ha pretesa di essere creduto e che, come tale, viene assunto dalla scena.

La scena è composta da un fondale illuminato di blu, che sfuma verso il chiarore proprio all’arrivo dell’alba, come ad imporre il segno più, fiducioso nella ciclicità delle storie, nelle orbite esistenziali che ogni componente dei destini definisce.

Quello che rimane dubbio è se sia stato veramente legittimo caricare alcune battute rispetto ad altre, imporre una gerarchia prioritaria al sistema di concetti espressi da un testo, di per sé ricchissimo di massime, quando il messaggio basico dell’impianto espositivo dello spettacolo diceva tutt’altro, e cioè la totale stoica accettazione dei flussi, dello scorrere delle cose.

“Il Marinaio” è uno spettacolo, nella sua totalità, che deve restare, deve essere riprodotto quante più volte possibili. È un testo che va letto, amato, acquisito e poi osservato nella sua riproduzione scenica ogni volta con una maturità diversa, a conferma del relativismo epistemologico, dell’instabilità delle nostre convinzioni. Un testo che è testimone della crescita degli individui e della loro capacità evolutiva. Un testo che non è mai stato rappresentato in Italia, di cui Tabucchi stesso ne affermava l’irrealizzabile adattamento teatrale, e che Gabriele Valentini ha avuto il coraggio scriteriato ed incosciente di allestire al teatro degli Arrischianti. Alla luce di questo non possiamo che augurarci di rivederlo presto, in giro per i teatri d’Italia, alla luce di altre sapienze, di altri livelli psichici e sopratutto, di conoscenze ulteriori.

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