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Affinità/Divergenze tra Ascanio Celestini e Noi. Un’intervista

Affinità/Divergenze tra Ascanio Celestini e Noi. Un’intervista

Il teatro di narrazione ha ormai, in Italia, un’importantissima tradizione. Da Marco Paolini e Marco Baliani che, negli anni ’80, seguendo il campo aperto della grande stagione monologica del teatro di Fo e Gaber, batterono una strada analoga, tracciando da subito un percorso dalla forte importazione ‘civile’, profondamente militante e concentrata sul presente.

C’è anche chi, successivamente, inserendosi in quella grande tradizione, non scorda la lezione di Brecht, Flaiano, Beckett e Pasolini, e lo fa impostando il discorso di scena secondo precisi schemi ‘televisivi’: Ascanio Celestini ha infatti definito un metodo narrativo, sfruttando i brevissimi spazi brevi che gli erano concessi nei programmi cui ha partecipato (Parla con Me, The Show Must Go Off, tra gli altri).

Al Cortona Mix Festival ha portato lo spettacolo “Racconti d’Estate”, una summa del suo particolare ed efficacissimo metodo di mise en scène.
L’ho incontrato dopo una serie non numerabile di Martini e vino bianco nel foyer del Teatro Signorelli a Cortona, per intervistarlo come inviato della trasmissione radiofonica “Radio Incontri Goes To Mix”.

Qui di seguito la trascrizione di alcune domande.

Qual è il panorama che si pone davanti ad un narratore che cerca di raccontare questo paese come lo fai tu? O meglio, cosa fotografa il teatro di narrazione italiano oggi?

Ascanio Celestini: Niente. Io non fotografo. La fotografia è un lavoro che viene fatto attraverso la luce, che impressiona la pellicola. Quello che sta davanti alle due lenti, le quali creano prossimità con la profondità, crea l’immagine. Io invece registro. Sì registro, non fotografo. Questo registrare mi serve, per definire poi il lavoro che mi vedi fare sul palco, per due cose; la prima è ciò che scaturisce dall’incrocio di sguardi, che se ci pensi è l’etimologia della parola intervista, no? Adesso noi stiamo facendo un incrocio di punti di vista per creare qualcosa. È un piccolo rito, per quanto sia possibile ottimizzare riti in questa strana modernità in cui viviamo. Dall’altra parte, questa registrazione per me serve come studio elementare della scrittura. Quando leggo Dostoevskij o Shakespeare, io faccio una gran fatica a tirar fuori la struttura su cui quegli autori hanno lavorato. Invece quando leggo la trascrizione della mia vicina di casa, per quanto dica decisamente delle cose meno importanti di Tolstoj o di Roth, riesco perfettamente a capire come costruisce la storia. Questo è fondamentale per me. È come imparare ad impagliare una sedia; se cerco l’impagliatore sotto casa, lui con la sua umiltà, è capace di spiegarmi perfettamente l’impagliatura della sedia. Se invece cerco il campione numero uno tra gli impagliatori di sedie, probabilmente non riuscirei mai a capire nulla. Il racconto è questo: non è uno stile, ma un modo per capire come le persone operino nel mondo. Più è semplice e più è interessante come studio.

I tuoi monologhi, le strutture dei fraseggi, l’azione che imposti della messa in scena, è un lavoro che fai autonomamente. Cosa ne pensi invece del lavoro meccanico, in un mestiere come il tuo?

A.C. Tutto dipende da l’urgenza che una persona ha, quando agisce. Il film è una cosa sola. Come il libro è una cosa sola. Negli affreschi lavoravano in dieci persone, per un opera unica. È chiaro che più noi riusciamo a fare in modo che l’opera d’arte sia gestita da un’unica persona, meglio quell’opera veicolerà un’immagine di una mente. Però l’idea stessa del cantiere, che è uno spazio e un tempo preciso, rappresenta una dialettica importante. Penso al cantiere di una casa: mio padre era un piccolo artigiano e lucidava i mobili nei cantieri, come porte e finestre con coppale o vernici, smalti o addirittura a mano con la gommalacca a tampone: ecco, nel cantiere c’era il piastrellista, il falegname, il lucidatore, et cetera. È importante una dialettica che metta in relazione persone che fanno cose differenti. Il problema è un altro: l’idea novecentesca della regia che costruisce il testo teatrale, con lo sceneggiatore che si fa i cazzi suoi con la sceneggiatura, il musicista che fa le sue pippe con la musica , funzionerebbe a pieno se il teatro fosse McDonald. Avrebbe un senso, se fosse una cosa di massa. Ma visto che del teatro non gliene frega niente a nessuno, e non siamo obbligati a seguire dei precisi tempi di produzione, potremmo anche lavorare in maniera diversa dalla catena di montaggio, con tutto il rispetto per chiunque lavori in questo ambiente sfigato.

Non è che cosa ma come lo si fa.

A.C. Eh sì, tutto però dipende dall’urgenza che una persona ha. Se per le persone che lavorano in teatro l’industrializzazione è un urgenza – può essere eh – io darei loro tutta la fiducia possibile. Se mi dicessero che l’urgenza di un autore è riportare in scena le Baccanti perché è importantissimo che le persone sappiano com’è morto Penteo, e il sentore di tutti necessita che quel musicista faccia le musiche, quell’attore faccia la sua parte con la recitazione e quel regista e quel coreografo mettano in pratica le loro conoscenze, io lo sosterrei. L’urgenza in teatro è fondamentale. È anche vero però che le teorie in teatro non esistono, esiste solo la pratica, anche quando è teoria.

Che consiglio dai ai giovani attori, ma un po’ a tutti i giovani?

A.C. Tre cose; fatte pagà. Nessuno lavora gratis. Seconda cosa, come si diceva in Unione Sovietica: “Studiare, Studiare, Studiare”. Terza cosa: scappa. Vattene il prima possibile. Che prima scappi e prima ritorni.

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